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“Sound of metal” la recensione del film

“Sound of metal” la recensione del film

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“Sound of metal” la recensione del film

Disponibile su Amazon Prime Video

Regia: Darius Marder
Cast: Riz Ahmed, Olivia Cooke, Paul Raci, Lauren Ridloff, Mathieu Amalric, Tom Kemp
Genere: drammatico
Durata: 120 minuti
Voto: ♥♥♥♥ (su 5)

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Il nostro giudizio

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In “Sound of Metal”, Riz Ahmed interpreta Ruben Stone, un drogato che ha cambiato la sua vita. Ora è un batterista in una band metal con la sua ragazza, Lou (Olivia Cooke). Insieme vivono una vita nomade in giro per gli Stati Uniti a bordo di una roulotte. La loro relazione professionale e personale, però, è messa in pericolo quando Ruben scopre che sta perdendo l’udito. Così, Lou comincia a preoccuparsi che il compagno stia scivolando, di nuovo, nel pericoloso tunnel degli stupefacenti. Insieme cercano una soluzione, che sia un intervento chirurgico per cercare di correggere la sua perdita di udito. Oppure un nuovo sistema di supporto, composto da persone della comunità sorda che possano aiutarlo ad accettare la sua situazione.

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C’è una domanda, profonda ed inquietante, che incombe sul film e assilla Ruben mentre cerca di dare un senso alla sua sordità. Se tu potessi porre rimedio ad una disabilità così invalidante, lo faresti? Ci sono persone nella vita di Ruben che cercano di aiutarlo a vedere i lati positivi, invitandolo nella loro comunità e insegnandogli ‘come essere sordo’. Ma Ruben si aggrappa alla sua vecchia vita, desideroso di tornare a come erano le cose prima. Sia Ruben che Lou sono creature vulnerabili, completamente devoti l’uno all’altra. Le circostanze, però, li cambiano profondamente, portandoli all’esasperazione. Un’esasperazione inevitabile, quando si è travolti da una cosa del genere.

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La performance di Ahmed è probabilmente la migliore della sua carriera: tenera, frustrata e furiosa, senza mai evocare alcun tipo di pietà. Ruben vuole vivere la sua vita alla sue condizioni, senza pensare a tutto il resto. E questo significa fare degli errori. Ma c’è anche la sensazione che questo suo egoismo non sia poi tanto da condannare, anzi. Al suo fianco, il personaggio della Cooke risulta un po’ troppo marginale, ma l’interpretazione è ottima e la chimica tra lei e Ahmed è notevolissima. Splendido anche il resto del cast, composto in gran parte da attori sordi, che offre una straordinaria, crudissima rappresentazione di questa disabilità.

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Altrettanto importante, poi, è l’intricato ed eccezionale sound design che, oltre a simulare l’esperienza disorientante di perdere l’udito, mette in evidenza la melodia e il rumore. Quelli che le persone udenti, spesso, danno per scontato: il frullatore, il lento gocciolare di una caffettiera, persino parlare al cellulare. La comunicazione diventa una fonte di frustrazione per Ruben che è così abituato ad esprimersi attraverso la musica. Come si fa a trovare un senso di identità quando la fonte di essa viene strappata via senza preavviso? “Sound of Metal” riflette sul nuovo stato dell’essere del protagonista, sospeso tra il mondo degli udenti e quello dei non udenti. Per questo, ampi tratti del linguaggio dei segni non vengono tradotti. E noi, pubblico udente che non conosce la lingua dei segni, ci sentiamo persi tanto quanto lui.

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Il film va avanti e indietro su una questione vana ed essenziale allo stesso tempo: accettare o meno un’offerta, che, forse, nemmeno esiste. Se potessi togliere la cosa che mi ha causato tanto dolore, sarei ancora quello che sono oggi? Una domanda talmente personale, da rendere qualsiasi risposta dura da dare e difficilissima da comprendere. “Sound of Metal” si confronta in maniera sorprendente con l’anima più profonda del suo protagonista, in una sinfonia di suono e silenzio.

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Una pellicola devastante e speranzosa allo stesso tempo, ancorata alla preziosissima interpretazione di Ahmed. Sarebbe troppo facile sostenere che colpisce di più chi ha vissuto un’esperienza simile o chi vive accanto ad una persona con lo stesso tipo di disabilità. Non è così. Chi è capace di introspezione non potrà che sentire la sua anima inchiodata dall’inizio alla fine della visione. Un’opera prima sorprendente, che non lascerà nessuno uguale a prima.

Francesco G. Balzano

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“RAYA E L’ULTIMO DRAGO” LA RECENSIONE DEL FILM DISPONIBILE SU DISNEY PLUS

“Raya e l’ultimo drago” la recensione del film

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“Raya e l’ultimo drago” la recensione del film

“Raya e l’ultimo drago” la recensione del film

disponibile su Disney+

Regia: Don Hall, Carlos López Estrada
Voci italiane: Veronica Puccio, Alessia Amendola, Jun Ichikawa, Valeriano Corini, Simone D’Andrea, Luisa Ranieri, Paolo Calabresi, Sara Labidi, Charlotte Infussi, Bruno Magne. Doriana Chierici, Vittoria Schisano, Laura Amadei, Simone Mori, Federico Talocci, Massimo Bitossi, Marina Valdemoro Maino, Camille Cabaltera
Genere: Animazione, azione, avventura, fantastico
Durata: 107 minuti
Voto: ♥♥ 1/2 (su 5)

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“Raya e l’ultimo drago” la recensione del film

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Un mondo distrutto dall’avidità per le risorse naturali? Beh, suona familiare. L’ultimo film della Disney, “Raya e l’ultimo drago”, mantiene la sua trama relativamente semplice. Si limita a creare un mondo che una volta era unito e che, da allora, è stato distrutto dalla brama di potere delle persone. Troppo semplice? Si, ma almeno “Raya e l’ultimo drago” non si impantana.

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Come accadde a “Mulan” e “Soul”, in concetti un po’ grandiosi ed elevati sulla singolarità dell’anima e l’energia condivisa dell’universo, nonché sull’utilitarismo del corpo. Questa pellicola sembra quasi un ritorno ai film avventurosi della vecchia Disney, a titoli come “Aladdin” e “Atlantis”. Soprattutto, sembra davvero destinato ai bambini, il che non dispiace affatto.

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Anche se il film è ambientato nella fantasiosa Kumandra, “Raya e l’ultimo drago” (di nuovo, come Aladdin) fa collassare un mucchio di identità nazionali e regionali in un’unica esplorazione del sud-est asiatico. Elementi di Laos, Thailandia, Cambogia, Vietnam, Myanmar, Malesia, Indonesia e Filippine sono incorporate qui. Dal design di un mercato del centro, ai sapori della zuppa che i personaggi assaporano insieme dopo una lunga giornata. Senza dimenticare i disegni dei draghi stessi, ovviamente. Questo tipo di ampia strategia di rappresentazione, che Disney utilizzò anche in “Coco” e “Oceania” può piacere o non piacere, naturalmente.

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Chi scrive non viene da quelle parti, né le conosce abbastanza bene da potersi avventurare in giudizi su accuratezze o imprecisioni. Ma, da un punto di vista puramente estetico, “Raya e l’ultimo drago” è spesso di una bellezza sbalorditiva. Tratteggia dettagli eccezionali anche in piccoli oggetti come un singolo fiore di loto. Oppure spettacolari descrizioni della tentacolare e gigantesca città fortezza costruita sull’acqua. Decisamente meno riuscito, invece, il design dei cattivi mostri di fumo.

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L’atmosfera vintage di “Raya e l’ultimo drago” è dovuta alle parti componenti che sono così familiari agli spettatori Disney. Abbiamo una sceneggiatura anacronistica. Una protagonista vivace e intelligente, accoppiata con due aiutanti fessacchiotti. Ovvero Tuk Tuk, il mezzo maiale e mezzo armadillo di Raya, e Sisu. E poi una narrazione che non offre realmente nessuna spiegazione alla malvagità dei cattivi. Ma immagino che la geopolitica non sia di particolare interesse per gli spettatori di “Raya e l’ultimo drago”. Che rimane saldamente nella modalità ‘Questo è un film per bambini e i bambini dovrebbero imparare a fidarsi e a fare amicizia’.

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Va bene così, dopotutto, dato che questo messaggio viene comunicato attraverso alcuni scene davvero emozionanti. La sorprendente colonna sonora elettronica di James Newton Howard, poi, aggiunge una deliziosa tensione. Quando il film si sposta sul terreno del genere action. La pellicola si affloscia un po’. Di tanto in tanto, nel corso del viaggio di Raya e Sisu, che diventa narrativamente troppo prevedibile. Rimane apprezzabile, comunque, il tentativo di tornare alla purezza delle origini senza voler, per forza, inserire elementi di stucchevole novità. Godibile.

Francesco G. Balzano

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“WANDAVISION” PRIMA STAGIONE LA RECENSIONE DISPONIBILE SU DISNEY PLUS

“Volevo nascondermi” la recensione del film

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“Volevo nascondermi” la recensione del film

“Volevo nascondermi” la recensione del film

Disponibile in streaming su Amazon Prime Video

Regia: Giorgio Diritti
Cast: Elio Germano, Pietro Traldi, Fabrizio Careddu, Andrea Gherpelli, Maurizio Pagliari, Mario Perrotta, Gianni Fantoni, Paola Lavini, Paolo Rossi, Giancarlo Ratti
Genere: Drammatico, biografico
Durata: 120 minuti
Voto: ♥♥♥♥ (su 5)

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Elio Germano offre una performance di rara bravura, tanto da immedesimarsi totalmente a fondo nel suo personaggio e rendere impossibile la distinzione tra interprete e interpretato.

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Giorgio Diritti dirige un film bello e scottante sulla vita dell’artista naif del 20° secolo Antonio Ligabue. Un uomo che soffrì di povertà e malattia mentale per tutta la vita. Ma i cui studi e sculture feroci, primitivi e appassionati di animali e ritratti umani lo resero celebrato ai suoi tempi come un autentico genio autodidatta. Nonché oggetto di culto dell’élite dell’epoca, che probabilmente lo considerava paragonabile, se non addirittura migliore di Van Gogh. Ci fu un altro biopic nel 1978, con la star di “Suspiria” Flavio Bucci come protagonista.

Stavolta, invece, tocca a Elio Germano interpretare il pittore Antonio Ligabue. E l’attore offre con una performance di rara bravura, tanto da immedesimarsi totalmente a fondo nel suo personaggio e rendere impossibile la distinzione tra interprete e interpretato. Allo spettatore viene restituita tutta la bruttezza estetica del protagonista. Non mancano lo scalpiccio, lo sguardo feroce, l’occasionale torsione equina della testa, i denti digrignati e il labbro inferiore cadente. Ma il film non dimentica di sottolineare che, per quanto Ligabue abbia vissuto un’esistenza quasi selvaggia, era anche un uomo che sapeva godersi le cose belle della vita. Come, ad esempio, una lauta mangiata al ristorante.

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“Volevo nascondermi” la recensione del film

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“Volevo nascondermi” racconta di come Ligabue sia nato in Italia, ma venne affidato a genitori adottivi svizzeri dopo la morte di sua madre. Fu bullizzato e tormentato da bambino, e persino confinato in un ospedale psichiatrico. Inoltre, fu espulso senza troppi fronzoli dalla Svizzera e si ritrovò a vivere nella povertà estrema, guadagnando lo stretto necessario come bracciante agricolo nel nord Italia. Solo un incontro casuale con il pittore Renato Marino Mazzacurati (Pietro Traldi) sbloccò il suo straordinario talento. Germano restituisce l’agonia interiore e la solitudine di un uomo che lottò con emozioni autolesioniste per tutta la sua vita. Un uomo che non conobbe l’amore della madre, baciato ‘soltanto’ da un miracoloso talento artistico. Talento che funzionò da valvola di sfogo per i suoi sentimenti e gli garantì guadagni necessari a vivere, ma non a diventare ricco.

Guardare “Volevo nascondermi” è come mangiare al ristorante in compagnia di Ligabue, tra portate deliziose eppure estremamente pesanti. Un film visivamente molto forte, che non cade nella trappola di voler assomigliare in qualche modo ai dipinti del protagonista. Anche se molte delle inquadrature ampie sono certamente (e giustamente) presentate come vasti e meravigliosi dipinti. 

Germano è completamente immedesimato nella parte, ed è molto bravo a trasmettere il genuino tormento dell’artista, la sua furia ribollente ed esigente nel volere che tutto sia all’altezza della sua visione. Una performance potentissima, che porta in dote a Germano l’Orso d’Argento del festival di Berlino come miglior attore.

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Francesco G. Balzano

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“Zack Snyder’s Justice League” la recensione del film

 

“Zack Snyder’s Justice League” la recensione del film

“Zack Snyder’s Justice League” la recensione del film

“Zack Snyder’s Justice League” la recensione del film

Disponibile su NOW 

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Regia: Zack Snyder
Cast: Ben Affleck, Henry Cavill, Amy Adams, Gal Gadot, Ray Fisher, Jason Momoa, Ezra Miller, Willem Dafoe, Jesse Eisenberg, Jeremy Irons, Diane Lane, Connie Nielsen, J.K. Simmons
Genere: Azione, avventura, fantastico, fantascienza
Durata: 242 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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Gli ‘Snyder cut’ contengono materiale inedito e una montagna di effetti visivi, compresa una revisione dell’aspetto del villain, Steppenwolf

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Solitamente, le versioni dei film con i ‘tagli del regista’ sono appannaggio degli appassionati di una pellicola. Un modo, per i più curiosi, di scoprire quale ‘magia’ si è persa nel percorso tra il montaggio e la sala. Rimangono, però, momenti per lo più non necessari per la comprensione dell’opera, figuriamoci se addirittura vadano a stravolgere i fatti raccontati al cinema.

Contro ogni ragionevole previsione, invece, “Zack Snyder’s Justice League” sfida questa consuetudine, riemergendo dall’ombra dopo la grande richiesta dei fan, che avevano invaso i social implorandone l’uscita. Fan che ora sono divisi sulla qualità di questo film ma, in fin dei conti, emerge una sostanziale soddisfazione. Almeno maggiore di quella del 2017, quando il film deluse le aspettative di pubblico e box office.

Gli ‘Snyder cut’ contengono materiale inedito e una montagna di effetti visivi, compresa una revisione dell’aspetto del villain, Steppenwolf. Ma ci sono tanti cambiamenti significativi, che trasformano completamente la narrazione. Ad esempio, ci viene rivelato che Steppenwolf non agisce da solo, ma per servire Darkseid, che in questa edizione appare insieme ad un altro membro della Justice League, il Martian Manhunter.

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“Zack Snyder’s Justice League” la recensione del film

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Ma basta questo a rendere “Zack Snyder’s Justice League” un qualcosa da vedere assolutamente? Non proprio, a meno che voi non siate dei grandi appassionati di storie di redenzione e vendetta, o, più in sintesi, degli amanti dei fumetti. Oltretutto, la pellicola dura più di quattro ore e questo aspetto non va in alcun modo a suo favore, anche perché, diciamolo chiaramente, non è affatto un capolavoro, anzi.

C’è da dire, comunque, che Snyder, nelle sue intenzioni originali, aveva immaginato un film molto diverso da quello, poi, voluto dalla DC e dalla Warner Bros. Perciò, quando ha abbandonato il progetto, la produzione ha affidato il compito a Joss Whedon, che l’ha riportato sui binari voluti dai piani alti dell’operazione. Il risultato è stato comunque dignitoso, ma molto lontano dalla visione del povero Snyder che, nel frattempo, piangeva la dolorosa scomparsa della figlia Autumn per suicidio.

Nonostante le impronte di Whedon fossero evidenti su tutto il film del 2017, i fan si scagliarono contro Snyder per le attese deluse dal progetto. Quindi, è obiettivamente difficile convincere qualcuno a perdere 4 ore della propria vita per guardare un film non proprio memorabile. Senza contare, poi, che qui lo stile di Snyder è all’ennesima potenza e, perciò, se generalmente non lo apprezzate, stavolta è davvero il caso di lasciar perdere. Io stesso, devo ammetterlo, ho guardato il film soltanto per motivi lavorativi. Ora che l’ho fatto, però, non posso dirmi pentito.

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Il regista dimostra di essersi evoluto in qualcosa di più di un ninfomane che adora così tanto il suo stile da renderlo l’unico motivo della visione.

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In “Zack Snyder’s Justice League” il regista dimostra di essersi evoluto in qualcosa di più di un ninfomane che adora così tanto il suo stile da renderlo l’unico motivo della visione. Qui c’è anche sostanza, profonda comprensione di ciò che la gente si aspetta dalla narrazione di un supereroe, che esso provenga dall’Universo DC o Marvel poco importa. Snyder tratteggia un film pieno di personaggi vivaci ed esplosivi, protagonisti perfetti per un film d’azione degno di questo genere. La pellicola è colma di momenti di tensione, che sono il vero pane del settore e, forse, oltre all’aspetto meramente commerciale, il reale motivo che spinge gli studios a produrne in serie.

E la suspense Snyder la porta avanti, potente, fino alla fine, come mai era successo in un’opera precendentemente targata DC. Quella che osserviamo prima dello scorrere dei titoli di coda, in fondo, più che una conclusione è una proposta di sequel che, probabilmente, però, non vedrà mai la luce. Un bel problema per la produzione visto che, ora, la curiosità è davvero alle stelle.

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“Zack Snyder’s Justice League” la recensione del film

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Tornando al cuore del film, occorre sottolineare la bravura di Snyder nel non trascurare i personaggi già noti al pubblico (Superman, Batman e Wonder Woman) mettendo, però, al centro della sua narrazione il poco conosciuto Cyborg. Proprio quest’ultimo, l’umano Victor trasformato dal padre in un mezzo robot, è quello che più interessa a Snyder. Perché gli permette di tirare fuori la sua anima più politica, quella che lo porta a raccontare l’isolamento degli afroamericani nelle società occidentali, dove sono al centro di mille sospetti.

Nonostante questa particolare attenzione, Snyder non dimentica gli altri protagonisti. Con bravura, anzi, riduce al minimo il già ingombrante ego di Batman e Superman, ormai già ampiamente analizzati in altre pellicole, e dà eguale importanze a quelle che, prima di questo film, erano considerate figure secondarie. Un vero peccato, insomma, che, almeno per il momento, non ci sia in previsione un nuovo capitolo di questo taglio pensato da Snyder. Visto il contesto produttivo, è meglio essere grati di aver potuto dare un’occhiata a questo progetto rimasto nell’ombra così a lungo. Se, poi, dovessero esserci le condizioni per un altro capitolo, tanto meglio. A patto che la durata si limiti, al massimo, a due ore, però!

Francesco G. Balzano

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“Soul” la recensione del film disponibile su Disney Plus

“L’incredibile storia dell’isola delle rose” la recensione del film disponibile su Netflix

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“L’incredibile storia dell’isola delle rose” la recensione del film disponibile su Netflix

“L’incredibile storia dell’isola delle rose” la recensione del film disponibile su Netflix

Disponibile su Netflix

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Regia: Sydney Sibilia
Cast: Elio Germano, Matilda De Angelis, Leonardo Lidi, Fabrizio Bentivoglio, Luca Zingaretti, François Cluzet, Tom Wlaschiha
Genere: Commedia, drammatico, storico
Durata: 117 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Per quanto incredibile, come dice il titolo stesso, è la vera storia di Giorgio Rosa, un’ ingegnere meccanico bolognese, che creò un microstato indipendente al largo di Rimini. Le poche centinaia di metri quadrati della nazione chiamata ‘Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose’ erano quelle di una piattaforma artificiale. Progettata dallo stesso Giorgio Rosa.

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Il nostro giudizio

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Reduce dall’ottima trilogia di “Smetto quando voglio”, Sydney Sibilia coinvolge il solitamente serioso Elio Germanio nella sua nuova follia cinematografica. Nonostante un accento bolognese più grottesco che realistico, l’attore romano riesce comunque a calarsi piuttosto bene in un ruolo assai distante da quelli a cui ci ha abituato. Il regista, infatti, lo coinvolge in una storia squisitamente anarchica (badate bene, non sovranista), dove si vuole enfatizzare lo spirito creativo italiano e non la voglia, molto in voga qui da noi di questi tempi, di chiudersi al ‘diverso’.

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“L’incredibile storia dell’isola delle rose”, al contrario, è un film coloratissimo, come piace a Sibilia, che, insieme alla fida cosceneggiatrice Francesca Maniera, dipinge un’ode ad un personaggio lucidamente folle e fuori da ogni epoca. Un “Ritorno al futuro all’italiana” dove, però, c’è molto poco di inventato e, invece, moltissima cronaca, seppur, come da titolo, “incredibile”. Un film punk che mette alla berlina l’omologazione per dare, invece, libero sfogo all’anarchia più totale. Un violento schiaffo alle istituzioni italiane (di ieri come di oggi), perfettamente incarnate dai satiricissimi personaggi di Luca Zingaretti e Fabrizio Bentivoglio.

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Sibilia dimostra, per l’ennesima volta, di sguazzare felicemente nelle storie di attualità che hanno il sapore di un funghetto allucinogeno. Come in “Smetto quando voglio” è abilissimo nell’infilarsi negli anfratti più extra-ordinari della cronaca per restituirli in tutta la loro forza grottesca. Notevolissima la sua regia, sempre col giusto ritmo e in grado di mantenere desta l’attenzione dello spettatore. Convincente e trascinante anche la colonna sonora, gioioso mix di classici italiani anni ’60 e qualche perla esterofila. Coerente anche il finale, che fa suo il motto dei Clash: “Ho combattuto la legge e la legge ha vinto”. Tutto bello, insomma, ma la prossima volta il regista dovrà uscire fuori dalla comfort zone del neorealismo allucinato per evitare di fare fotocopie in serie della sua fortunata trilogia d’esordio.

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“SOUL” LA RECENSIONE DEL FILM DISPONIBILE SU DISNEY PLUS

“Soul” la recensione del film disponibile su Disney Plus

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“Soul” la recensione del film disponibile su Disney Plus

“Soul” la recensione del film disponibile su Disney Plus

Disponibile su Disney Plus

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Regia: Pete Docter
Voci italiane: Paola Cortellesi, Neri Marcorè, Perla Liberatori, Federica De Bortoli, Oliviero Dinelli, Ludovica Modugno, Rosella Izzo, Jonis Bascir, Fabrizio Vidale, Paola Egonu
Genere: Animazione, commedia, drammatico, avventura
Durata: 100 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Joe è un insegnante di musica in una scuola media, che desidera suonare nel famoso jazz club di New York The Blue Note. Joe perderà la vita mettendo involontariamente il piede sbagliato in una grata fognaria aperta. Ma la morte non rappresenterà la fine del suo viaggio. Quando l’anima di Joe lascerà il suo corpo, inizierà un nuovo sorprendente viaggio, che porterà la sua anima in un regno cosmico, il Seminario ‘You’. Dove vengono create e perfezionate le anime.

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Il nostro giudizio

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Tra tutti gli autori di casa Pixar, Pete Docter è quello a cui piace occuparsi di temi che hanno a che vedere con la metafisica e, perché no, anche con la filosofia. In “Soul” prova a fare il colpaccio, ovvero far digerire tematiche molto care al pubblico adulto pure alla platea dei bambini. Nonostante i lodevoli sforzi grafici e qualche trovata furbetta come, ad esempio, l’inserimento estemporaneo del personaggio del gatto, la missione non gli riesce completamente.

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Siamo, infatti, molto lontani dalla perfezione contenutistica di “Coco” e a due spanne di distanza dalla qualità dal suo “Inside Out” dove, invece, riuscì a far coincidere perfettamente psicologia e cinema per l’infanzia. “Soul”, invece, rimane un film dedicato soltanto ai più grandi, sia per il messaggio finale che per il linguaggio usato per raccontare il viaggio ultraterreno del protagonista. Un protagonista, tra l’altro, piuttosto deboluccio, perché non ha sufficiente e carisma per portare il pubblico ad empatizzare con lui e nemmeno una sufficiente carica di cattiveria per giustificarne la ‘redenzione’ finale.

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E’ convincente, invece, il parallelismo tra la musica jazz e il giusto modo di vivere la vita. La morale secondo cui è bene imparare ad affrontare l’esistenza senza spartito, come solo i grandi interpreti di questo genere musicale sanno fare, è affascinante e molto ben sublimato dal finale. Un finale che alza, anche se non di molto, la qualità di un film, tutto sommato, poco riuscito. Perché si perde in noiosissime congetture su un ‘oltremondo’ altrettanto barboso, quando poi la pellicola vuole esaltare la bellezza della vita terrena. Troppa filosofia, insomma, se lo scopo è quello di assaporare fino un fondo un gustoso trancio di pizza.

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“10 GIORNI CON BABBO NATALE” LA RECENSIONE DEL FILM SU AMAZON PRIME

Francesco G. Balzano

“10 giorni con Babbo Natale” la recensione del film su Amazon Prime

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“10 giorni con Babbo Natale” la recensione del film su Amazon Prime

“10 giorni con Babbo Natale” la recensione del film su Amazon Prime

Disponibile su Amazon Prime Video 

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Regia: Alessandro Genovesi
Cast: Fabio De Luigi, Valentina Lodovini, Diego Abatantuono, Angelica Elli, Matteo Castellucci, Bianca Usai
Genere: Commedia
Durata: 100 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Dopo “10 giorni senza mamma” ritorna la famiglia Rovelli riunita per un’avventura natalizia, che li porterà lontano da casa. Ultimamente Carlo (Fabio De Luigi) e Giulia (Valentina Lodovini) si ritrovano spesso a discutere sulla divisione delle mansioni da svolgere a casa e in famiglia. Soprattutto perché lei ha ripreso di recente a lavorare ed è rimasto principalmente lui a occuparsi dei figli e delle faccende domestiche. A Carlo, però, questo ruolo di “mammo” tuttofare proprio non va giù e decide così di trovarsi anche lui un impiego. Purtroppo le sue speranze cadono miseramente, quando Giulia gli rivela che potrebbe ricevere una promozione, che la porterebbe a trasferirsi in Svezia. Il colloquio per questo posto si tiene a Stoccolma il 24 dicembre, impedendo alla famiglia di trascorrere insieme le festività natalizie.

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Il nostro giudizio

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In “10 giorni con Babbo Natale” Alessandro Genovesi affronta un tema molto spinoso e lo fa con enorme coraggio. Perché parlare di famiglia numerosa e lavoro, senza mai lasciarsi andare a facili estremismi, raccontando solo la realtà per ciò che è, non risulta mai impresa facile, anzi. E’ un dato di fatto che una coppia giovane, desiderosa di tirar su una famiglia tanto bella quanto numerosa debba fare delle rinunce. Si, ma chi è chiamato al maggior sacrificio? L’uomo o la donna? Capite bene, dunque, che addentrarsi in certe tematiche senza sposare nessun campanilismo è davvero impresa (quasi) impossibile.

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Solo per aver mantenuto il giusto equilibrio, insomma, Alessandro Genovesi dovrebbe ricevere molti complimenti. Anche perché, almeno in apparenza, con “10 giorni con Babbo Natale”, si mette in una posizione piuttosto scomoda. Se, infatti, in “10 giorni senza mamma” aveva, in maniera sacrosanta, redarguito quei tanti padri che, con la scusa del lavoro, si dimenticano di essere genitori, stavolta rivolge la medesima reprimenda anche alle madri. Perché Giulia è talmente presa dalla sua carriera da abbandonare totalmente la prole, lasciandola alle cure del marito Carlo. Persino durante le festività natalizie. Dove comincia, dunque, il labile confine tra realizzare sé stessi e dedicarsi ai progetti di famiglia?

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Attenzione: il film non vuole fare discorsi basati sul genere. Le mamme e i papà (i papà e le mamme) sono chiamati, in egual misura, agli stessi oneri e onori. Non è, dunque, un atto di accusa nei confronti delle donne in carriera, tutt’altro. Semmai un nuovo punto di vista, dal momento che il cinema di genere ‘natalizio’, da sempre, preferisce mettere alla berlina i papà distratti dal lavoro. Quasi come se solo gli uomini potessero arrogarsi il diritto di esibire tali ‘egoisimi’ e non anche le donne.

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“10 giorni con Babbo Natale” la recensione del film su Amazon Prime

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A questa attualissima tematica sociale “10 giorni con Babbo Natale” abbina un segmento al gusto di favola, con Diego Abatantuono nei panni di un Santa Claus a cui gli anni stanno giocando un brutto scherzo alla memoria. Un personaggio volutamente poco credibile, per far in modo che nessuno degli altri protagonisti riponga fede nella sua vera identità. La pellicola è sì commerciale e, come tutte le altre dello stesso filone, finisce col guardare i problemi solo in superficie senza scavare a fondo. Però è una pellicola che ha delle cose da dire e le dice, tutto sommato, con una buona dose di saggezza, riuscendo a mantenere il giusto equilibrio tra la crudezza dello schiaffo e la dolcezza della carezza.

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Alessandro Genovesi ritrae una famiglia piuttosto classica, per non dire stereotipata, ma, nonostante tutto (o forse proprio per questo) riesce a far affezionare lo spettatore ai personaggi. In questo nucleo stilizzato e non troppo definito, infatti, è più facile riconoscersi e compatire i piccoli e grandi dissidi rappresentati. Chi guarda si schiera, da una parte o dall’altra, chi dirige, invece, rimane al di sopra delle parti, limitandosi a raccontare col sorriso sempre a portata di mano. Questo è il grande merito del regista, aiutato, in maniera imprescindibile, dalle convincenti interpretazioni di Valentina Lodovini e Fabio De Luigi. Proprio quest’ultimo è il vero mattatore sulla scena, in grado di dare brio e ritmo all’opera sia quando è spalleggiato dall’attrice, sia quando divide la scena col cast di giovanissimi colleghi. Il meglio di sé, però, lo dà in coppia con Diego Abatantuono, quando mette in disparte il copione e si lascia andare ad una irrestitibile improvvisazione. Un film caustico, ma dal cuore tenerissimo.

Francesco G. Balzano

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“TUTTO NORMALE IL PROSSIMO NATALE” LA RECENSIONE DEL FILM SU NETFLIX

“Tutto normale il prossimo Natale” la recensione del film su Netflix

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“Tutto normale il prossimo Natale” la recensione del film su Netflix

“Tutto normale il prossimo Natale” la recensione del film su Netflix

Disponibile su Netflix

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Regia: Roberto Santucci
Cast: Leandro Hassum, Elisa Pinheiro, Danielle Winits, Louise Cardoso, Rodrigo Fagundes, Arianne Botelho, Miguel Rômulo, José Rubens, Levi Ferreira, Lola Fanucchi, Daniel Filho
Genere: Commedia
Durata: 101 minuti
Voto: ♥♥ 1/2 (su 5)

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La trama

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Jorge (Leandro Hassum) non ama il Natale in quanto è nato proprio il 25 dicembre ma anche per via della frenesia che in questo periodo coglie la quasi totalità delle persone. La notte della vigilia sale sul tetto di casa vestito da Babbo Natale per consegnare i regali ai propri figli ma subisce una caduta dagli effetti sconvolgenti. Resterà infatti vittima di un’amnesia lunga un anno, che si interromperà soltanto il successivo 24 dicembre. Entra così in un loop temporale che lo fa risvegliare a ogni vigilia di Natale. Senza essere a conoscenza di tutto ciò che ha combinato per il resto dell’anno. Come ad esempio gettare alle ortiche il rapporto con sua moglie Laura (Elisa Pinheiro). E mettersi con l’odiosa Màrcia (Danielle Winits), dopo essere cambiato notevolmente nel corso degli anni.

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Il nostro giudizio

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Roberto Santucci, regista brasiliano di commedie di gran successo in patria, sforna una pellicola tutta incentrata sul valore delle piccole cose. Quelle che acquistano il giusto (ed enorme) valore solo nel momento in cui, ahinoi, le perdiamo. Un argomento molto delicato e, senza dubbio commovente, che il cineasta tratta col giusto garbo e affidandosi ad un cast molto ben assortito e, a livello tecnico, anche di tutto rispetto. Tra i tanti attori presenti spiccano il protagonista, Leandro Hassum, e il quasi ‘invisibile’ ma fondamentale Levi Ferreira, nei panni del silenzioso Vô Nhanhão, personaggio solo apparentemente marginale.

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“Tutto normale il prossimo Natale” è un film ben congegnato, che può vantare una sceneggiatura armoniosa e con la giusta cadenza, almeno nella prima parte. Soffre, invece, quando, quasi inevitabilmente, deve passare dallo stile scanzonato a quello più serioso che, in un crescendo di emotività, porta al lacrimoso finale. Qui sta, in effetti, la più grande pecca di tutta l’operazione. Cioè nell’iniziare con una visione irrispettosa e spassosamente punk della ‘sacralità’ del Natale per finire, poi, con la melensità (anche eccessiva) tipica di questo periodo dell’anno. Come, per intenderci, se una puntata de “I Griffin” regalasse un finale benevolo nello stile de “I Robinson”.

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“Tutto normale il prossimo Natale” la recensione del film su Netflix

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Tutto questo, sia chiaro, non rovina affatto la gradevolezza della pellicola, che rimane una bella sorpresa del catalogo Netflix. Lascia, però, spiazzato (e non in senso positivo) lo spettatore questo deciso cambio di registro, che sembra voler forzare lo spettatore alla commozione. Si può, in sostanza, scrivere un film ‘politicamente scorretto’ sul Natale senza dover virare su toni più convenzionali al tema. Per quanto riguarda il cast, poi, dicevamo della convincente interpretazione del protagonista, Leandro Hassum, considerato ‘il Jim Carrey carioca’, per via della sua ‘faccia di gomma’.

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Una caratteristica assolutamente apprezzabile e molto utile nella parte comica e scorretta del film. Ma “Tutto normale il prossimo Natale” è anche un’opera dalle venature drammatiche, una tonalità del racconto che richiedeva di agire di sottrazione nella recitazione e non andare sopra le righe come, invece, fa lui. Soprattutto perché, intorno a lui, ci sono personaggi essenziali, quasi maschere senza profondità. La mancanza di moderazione è utile a strappare qualche risata in più, ma assolutamente fuori luogo nei momenti dolorosi. Facezie, comunque, forse un eccesso di acidità nella tastiera di chi digita, perché, è bene ripeterlo, stiamo parlando di un film gradevole e che merita di essere visto. Attenzione, però, per tematiche e toni non è assolutamente adatto ai bambini. Semmai è un buon modo per ammonire i grandi a non scordare mai di esserlo stati.

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“QUALCUNO SALVI IL NATALE 2” LA RECENSIONE DEL FILM SU NETFLIX

“Qualcuno salvi il Natale 2” la recensione del film su Netflix

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“Qualcuno salvi il Natale 2” la recensione del film su Netflix

“Qualcuno salvi il Natale 2” la recensione del film su Netflix

Disponibile su Netflix

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Regia: Chris Columbus
Cast: Kurt Russell, Goldie Hawn, Darby Camp, Jahzir Bruno, Julian Dennison, Judah Lewis, Kimberly Williams-Paisley, Tyrese Gibson, Patrick Gallagher, Christy St. John, Danny Dworkis, Tricia Munford
Genere: Avventura, Commedia
Durata: 115 minuti
Voto: ♥♥ 1/2 (su 5)

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La trama

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“Qualcuno salvi il Natale 2”, film diretto da Chris Columbus, racconta di come Kate Pierce (Darby Camp), un tempo bambina curiosa, sia diventata un’adolescente cinica. La ragazza si appresta a festeggiare il Natale insieme alla madre, al suo nuovo compagno e al figlio di quest’ultimo, Jack (Jahzir Bruno). Ma Kate non è molto entusiasta di questa “nuova” famiglia e, stanca di sopportare le dinamiche familiari venutasi a creare con l’arrivo di Jack e del padre, decide di scappare. Non immagina che Babbo Natale (Kurt Russell) andrà a cercarla per chiederle di aiutarlo a salvare il Natale…

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Il nostro giudizio

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Dopo il (molto) deludente primo capitolo, Chris Columbus prende in mano le redini del progetto e sforna il classico film natalizio. Un prodotto senza alti e con qualche basso, buono soltanto per tenere a casa le famiglie in queste festività anomale caratterizzate dalla pandemia in corso. La trama scorre scontata dall’inizio alla fine, senza regalare il minimo sussulto allo spettatore, che si ritrova compiaciuto in ogni sua aspettativa. Di veramente valido, insomma, c’è soltanto il lato tecnico (costumi ed effetti speciali, in particolare) e il marchio di fabbrica del regista, ovvero quell’innata capacità di dirigere al meglio gli attori bambini ed adolescenti.

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Chris Columbus, però, fallisce nel dipanare al meglio la trama, perché non si preoccupa minimamente di ingarbugliarla per, poi, scioglierla. Preferisce, invece, seguire una linea che scorre sempre dritta sulla via della prevedibilità. Rispetto alle sue classiche storie natalizie del passato, poi, manca quasi totalmente il sottotesto. “Qualcuno salvi il Natale 2”, in fondo, non vuole raccontare niente oltre ciò che si vede, è un film annoiato che, però, riesce a catturare l’attenzione. Merito soltanto di un CGI a misura di bambino, capace di rapire gli occhi dei più piccoli trascinando, stancamente, la pellicola al traguardo finale.

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Da citare, in negativo, la scena dell’aeroporto (davvero il punto più basso in ogni senso, soprattutto estetico). Ma anche l’epilogo è davvero di una bruttezza rara, con una melensità degna dei peggiori spot natalizi che, anche quest’anno, stanno invadendo i nostri televisori. Cosa rimane, dunque, da salvare? Poco o nulla, ma è quel tanto che basta per non sbadigliare troppo e distrarci, per un paio d’ore, dalle brutte notizie. Di questi tempi è abbastanza per strappare una sufficienza, per quanto estremamente stiracchiata.

Francesco G. Balzano

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“STO PENSANDO DI FINIRLA QUI” LA RECENSIONE DEL FILM SU NETFLIX

“Rocketman” recensione film

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“Rocketman” recensione film

“Rocketman” recensione film

Disponibile su Amazon Prime Video

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Regia: Dexter Fletcher
Cast: Taron Egerton, Jamie Bell, Richard Madden, Bryce Dallas Howard, Gemma Jones, Steven Mackintosh, Tom Bennett, Charlie Rowe, Stephen Graham, Tate Donovan, Matthew Illesley, Kit Connor, Jason Pennycooke, Harriet Walter
Genere: Biografico, drammatico, musicale
Durata: 121 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Il film racconta la storia di Elton John. Ripercorrendo la sua vita dagli albori della Royal Academy of Music, in cui era un timido e talentuoso pianista, fino agli anni ottanta, momento di massimo splendore della sua carriera. Iniziando con dei flashback, partendo dal momento in cui Elton fa parte del gruppo di recupero nella rehab in cui si ricovera nel 1983 per abuso di alcol e droga. L’artista parla di sé stesso nella Londra di metà anni cinquanta, dove era ancora conosciuto con il nome di Reginald Dwight.

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Il nostro giudizio

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Parlare di “Rocketman” senza fare nemmeno un paragone con “Bohemian Rhapsody” è praticamente impossibile. Perché il regista Dexter Fletcher è lo stesso che ha preso il posto di Bryan Singer, licenziato in tronco durante la lavorazione del biopic sui Queen e Freddie Mercury. Visto il grande successo ottenuto da quest’ultimo, è stato proprio lo stesso Elton John a scegliere il medesimo autore per mettere in scena la sua vita al cinema.

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Un paragone, dicevamo, tanto obbligato quanto ingeneroso, perché Fletcher sceglie di seguire una strada completamente diversa da quella intrapresa in “Bohemian Rhapsody”. Se, infatti, in quel caso scelse di rimanere fortemente attaccato alla realtà, in “Rocketman” opta per un musical che chiede molto in prestito alla fantasia. Una scelta che sembra dettata dal voler seguire le vicende con gli occhi allucinati del protagonista. Protagonista che appare sin da subito come un supereroe della Marvel, ovvero dotato di un grande superpotere (quello della Musica) dal quale derivano enormi responsabilità, troppo difficili da portare su due spalle soltanto. L’opzione musical, però, per assurdo, va a penalizzare proprio le canzoni, soprattutto le più iconiche. La volontà di far ascoltare le hit più celebri (pure quelle trascurabili) fa sì che pietre miliari della sua discografia (“Your Song” e la title song, su tutte) scorrano quasi senza lasciare traccia.

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La bellezza di “Rocketman” sta nella volontà di non voler nascondere le tante (troppe) debolezze di Elton John. Ecco, dunque, che non ci vengono risparmiati abuso di droghe, alcol e tentati suicidi. Tutto qui viene reso evidente, dal carattere scorbutico dell’artista fino (evviva!) alla sua omosessualità, vissuta e raccontata senza alcuna ‘censura’. Decisamente meno apprezzabile, invece, è il tono assolutorio che la pellicola mostra nel giustificare le scelte autodistruttive del musicista.

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“Rocketman” recensione film

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Sebbene non si possa parlare di ‘agiografia’ di Elton John, bisogna però dire che è fin troppo evidente che ad orchestrare l’intero progetto ci sia la sua mano. A guardare il film, infatti, pare che dietro la sua caduta nel tunnel di alcol e droga ci sia soltanto la mancanza d’affetto, riscontrata da bambino e proseguita in età adulta. Un anatema lanciato dalla madre che l’ha condannato a non essere amato, come se non esistesse, al contempo, un libero arbitrio che è l’unica bussola delle scelte di qualsiasi essere umano. Che le colpe dei padri (e delle madri) ricadano sui figli, insomma, è una teoria tutta da dimostrare.

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Ma in “Rocketman” viene data per assunta, ed allora il protagonista è costantemente dipinto come vittima degli eventi, come la gallina dalle uova d’oro da sfruttare. Una via d’uscita facile da intraprendere e persino un espediente ottimo per rendere la sua vita un perfetto esempio di romanzo cinematografico. Da evidenziare, poi, le ottime scelte fatte in fase di casting, perché la crescita di Elton John è raccontata coi volti giusti sia nell’età infantile che in quella adulta. Taron Egerton e i suoi giovanissimi colleghi, infatti, sono molto somiglianti e perfettamente calati nella parte. Tutto bello, insomma, ma, probabilmente, una maggiore sincerità avrebbe reso il film di un livello superiore a un prodotto di buona fattura per accattivarsi, ancor di più, la simpatia dei fan.

Francesco G. Balzano

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“STO PENSANDO DI FINIRLA QUI” RECENSIONE FILM

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