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“Odio l’estate” la recensione del film

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“Odio l’estate” la recensione del film

“Odio l’estate” la recensione del film

Distribuzione: Medusa Film 

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Regia: Massimo Venier
Cast: Aldo, Giovanni, Giacomo, Lucia Mascino, Carlotta Natoli, Maria Di Biase, Massimo Ranieri, Davide Calgaro, Ilary Marzo, Michele Placido, Sabrina Martina, Melissa Marzo
Genere: Commedia
Durata: 110 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Tre uomini decidono di trascorrere le vacanze estive in un’isola a largo delle coste italiche, ognuno insieme alla rispettiva famiglia. Non conoscendosi, scelgono la stessa meta estiva, la stessa spiaggia e si ritrovano anche ad affittare la stessa casa…tutti nello stesso periodo. Sono totalmente diversi l’uno dall’altro. Aldo è un tamarro senza un lavoro fisso, è ipocondriaco, ha una passione per Massimo Ranieri. Vive con un cane di nome Brian, una moglie che urla invece di parlare, e i figli Ilary e Salvo. Giovanni è uno organizzato, preciso, gestisce un’impresa prossima al fallimento e viaggia con la moglie e la figlia Alessia. Infine, c’è Giacomo, medico di successo che non riesce, però, ad avere un rapporto con il figlioletto in piena pubertà.

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Sembra di essere tornati tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del nuovo millennio, quando i film del trio furoreggiavano nelle nostre sale

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Dopo una pausa di poco più di 15 anni, Aldo, Giovanni e Giacomo riprendono, saggiamente, la collaborazione col loro regista di fiducia, Massimo Venier. Una scelta azzeccata, perché era l’unico modo per reindirizzare la loro vena artistica su una strada cinematografica correttamente tratteggiata. La storia è semplice ed efficace e il racconto insiste, ancora una volta ma senza annoiare, sulla loro inossidabile amicizia. Sembra di essere tornati tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del nuovo millennio, quando i film del trio furoreggiavano nelle nostre sale. La voglia, in effetti, è quella di fornire un effetto nostalgia, inserendo, però, quegli stessi personaggi nella modernità. Ecco, dunque, Giovanni alle prese con una bottega di famiglia destinata alla chiusura e Giacomo, che deve combattere da genitore non biologico con un figlio maleducato e sempre incollato all’iPad.

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“Odio l’estate” è il trampolino di (ri)lancio di Aldo Giovanni e Giacomo

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Con “Odio l’estate” Aldo, Giovanni e Giacomo tracciano nuove vie d’uscita per la loro comicità, che sembrava ormai segnata da una data di scadenza. Questo film è il loro trampolino di (ri)lancio, perché si, sono ancora legati a un passato che li obbliga all’autocitazionismo, però hanno anche il coraggio di osare nel parlare un linguaggio se non nuovo, almeno diverso. Soprattutto, hanno aperto il loro mondo maschile (ma mai maschilista) all’universo femminile. Finalmente, nel cast troviamo tre attrici di razza (Maria Di Biase, Carlotta Natoli e Cinzia Mascino), che entrano prepotentemente nella storia ed hanno un ruolo ben definito.

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“Odio l’estate” la recensione del film

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Il trio si mette, a tratti, da parte per lasciare spazio e scena alle compagne di viaggio. La loro comicità è meno istintiva e prorompente, ma si lascia incanalare in una sceneggiatura solida e ben strutturata, dove le risate di grana grossa si sacrificano in nome di una storia gradevole. Il nuovo meccanismo, insomma, non ripudia i vecchi ingranaggi, ma toglie loro la ruggine e li olia a dovere, per farli tornare a girare come ai vecchi tempi, seppur in maniera diversa. Bene Michele Placido, che nelle sue apparizioni dimostra di avere un’ottima sintonia comica con Aldo, Giovanni e Giacomo. Piacevole, seppur molto decontestualizzata, la comparsata del sempre bravo Roberto Citran. Funziona anche il cast di giovani e giovanissimi, in particolare Edoardo Vaino (Ludovico), che dà vita ad un personaggio perfettamente caratterizzato dalla sceneggiatura.

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“Odio l’estate” è diretto parente di “Chiedimi se sono felice”, ma ha ambizioni più alte

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“Odio l’estate” è un film maturo, tra i migliori (se non il migliore) del trio. E’ diretto parente di “Chiedimi se sono felice”, ma ha ambizioni più alte, giustificate dall’età dei tre protagonisti. Ciò, però, non equivale ad esserne all’altezza. Quando la pellicola svolta su tonalità blandamente drammatiche, infatti, sbanda e non tiene più la strada come un tempo. Nulla di grave, però, perché il coraggio va sempre premiato. Anche se costa una brutta ammaccatura su una macchina, sin lì, perfettamente stabile ed affidabile.

Francesco G. Balzano

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“FIGLI” LA RECENSIONE DEL FILM

“Figli” la recensione del film

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“Figli” la recensione del film

“Figli” la recensione del film

Distribuzione: Vision Distribution

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Regia: Giuseppe Bonito
Cast: Valerio Mastandrea, Paola Cortellesi, Stefano Fresi, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Andrea Sartoretti, Massimo De Lorenzo, Gianfelice Imparato, Carlo de Ruggeri, Betti Pedrazzi
Genere: Commedia, Drammatico
Durata: 97 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Nicola e Sara sono una coppia innamorata e felice. Sposati da tempo, hanno una figlia di sei anni e una vita che scorre senza intoppi. Ma quella che era iniziata come una dolce fiaba romantica si trasforma in un vero incubo con l’arrivo di Pietro, il secondo figlio della coppia. Quella che sembrava una perfetta famiglia media inizia a mostrare i primi squilibri e i due coniugi si ritroveranno a scontrarsi con l’imprevedibile. Iniziano così a emergere vecchi rancori, insoddisfazioni che non riescono più a essere celate e ogni minimo disaccordo sembra essere motivo di litigio.

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“Figli” la recensione del film

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Era il 2002 quando Mattia Torre, grazie anche alla regia di Alessandro D’Alatri, regalava alla cinematografia italiana “Casomai”. Un film piccolo, un gioiellino, che, però, ritraeva perfettamente la nostra società e i nuovi ‘invisibili’: quelle giovani (più o meno) coppie desiderose di metter su famiglia. Una lotta ad ostacoli raccontata con la giusta ironia, quella che lascia l’amaro in bocca, quella di chi, come i due protagonisti, si sente abbandonato da tutti: dallo Stato ma anche e (forse) soprattutto dai genitori.

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Potremmo considerare “Figli” un “Casomai 2.0”

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Le cose non sono affatto cambiate da allora, anzi, ed è per questo che potremmo considerare tranquillamente “Figli” un “Casomai 2.0”. Qui, però, c’è un piccolo ma significativo passo avanti: la coppia formata da Cortellesi e Mastandrea ha voglia da uscire dall’isolamento in cui la società, forzatamente, la costringe. Una scena emblematica, in questo, senso è quando Nicola urla al mondo la sua gioia per l’arrivo del secondo figlio e riceve, miseramente, uno “sticazzi!” da un passante a caso. I due, però, non si arrendono, hanno voglia di emergere, di palesarsi.

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Il film è, in apparenza, molto leggero eppure riesce a cogliere la frustrazione, molto presente in tutti i genitori

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La sceneggiatura di Mattia Torre è matura, esperta, capace di cogliere il tragicomico che abbonda nella situazione di chi decide di mettere al mondo uno o più figli al giorno d’oggi. Il film è, in apparenza, molto leggero eppure riesce a cogliere la frustrazione, molto presente in tutti i genitori e che si svela anche in gesti che dovrebbero essere di cura, d’affetto. Tristemente spassoso, in tal senso, è l’accento che si mette nel sottolineare la ‘violenza’ che le mamme e i papà imprimono nel terzo passaggio di pulizia della bocca dei bambini.

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Lo stratagemma di inserire i protagonisti in uno sfondo bianco latte rende benissimo l’idea del loro stato di isolati totali.

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Le pecche di questo film sono, purtroppo, tutte nella regia inappropriatamente anonima di Giuseppe Bonito. C’è molto rispetto per Mattia Torre, questo si, tanto che si lancia in una scopiazzatura del televisivo “La linea verticale”. Lo stratagemma di inserire i protagonisti in uno sfondo bianco latte, come nella serie ospedaliera, rende benissimo l’idea del loro stato di isolati totali. Però questa sceneggiatura aveva un vitale bisogno di trovare una sua personalizzazione anche nella messa in scena.

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Tutto si riduce ad una lunga riflessione, con momenti divertenti, su una serie di cliché nei quali tutti i genitori potranno riconoscersi.

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Invece, Bonito si limita al compitino, ha paura di sbagliare, di non omaggiare nel migliore dei modi il prematuramente scomparso Torre. Il regista gira col freno a mano tirato, non dà ritmo al racconto, che si muove lentamente, troppo lentamente, con l’andatura di un monologo (perché da lì tutto nasce). Ma se Mastandrea, a teatro, con “I figli invecchiano”, era riuscito con la giusta modulazione vocale a sottolineare i momenti topici, in “Figli”, a livello visivo, manca proprio questo. Così tutto si riduce ad una lunga riflessione, con momenti divertenti, su una serie di cliché nei quali tutti i genitori potranno riconoscersi.

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“Figli” la recensione del film

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Ecco, allora, elencate le difficoltà nel fare accettare il nuovo arrivato alla prole già esistente. La (quasi) impossibilità di far convivere genitorialità e carriera, gli ostacoli nel trovare la baby-sitter adatta e, infine, gli intramontabili e irrisolvibili conflitti generazionali coi genitori, maggioranza assoluta e manovratori indisturbati al timone della nostra società. Tristemente bello il messaggio lanciato nel finale, sulla necessità di accettare ciò che capita, come un qualcosa che appartiene a noi stessi. Un messaggio che, se trasferito nella lettura del destino di Mattia Torre, rende tutto molto più commovente.

Francesco G. Balzano

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JOJO RABBIT LA RECENSIONE DEL FILM

“Jojo Rabbit” la recensione del film

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“Jojo Rabbit” la recensione del film

“Jojo Rabbit” la recensione del film

Distribuzione: Walt Disney Italia / 20th Century Fox

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Regia: Taika Waititi
Cast: Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie, Taika Waititi, Scarlett Johansson, Sam Rockwell, Archie Yates, Rebel Wilson, Alfie Allen, Stephen Merchant
Genere: Commedia, Drammatico
Durata: 108 minuti
Voto: ♥♥♥1/2 (su 5)

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La trama

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E’ la storia di un dolce e timido bambino tedesco di dieci anni, Jojo Betzler, soprannominato “Rabbit”, appartenente alla Gioventù hitleriana durante i violenti anni della Seconda guerra mondiale. Siamo nella Germania del 1944, il padre di Jojo è al fronte in Italia, mentre sua madre, Rose, si prende cura di lui, dopo la morte della sorella. Il bambino trascorre le sue giornate in compagnia di Yorki, il suo unico vero amico, e frequentando un campo per giovani nazisti, gestito dal capitano Klenzendorf. Sebbene sia considerato strambo dai suoi coetanei, il ragazzo si sente un nazista avvantaggiato perché ha un amico immaginario molto particolare. Una versione grottesca e caricaturale di Adolf Hitler. Jojo odia gli ebrei, nonostante non ne abbia mai visto uno, è fermamente convinto che sia giusto ucciderli.

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Una commedia dai toni surreali che, però, non dimentica mai la tragedia che sta raccontando

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Taika Waititi, regista di padre maori e madre ebrea, affronta col giusto coraggio una delle pagine più nere della Storia. Quel regime nazista che, ancora oggi, purtroppo ha putridi echi nella nostra società. Lo fa, però, senza avere la presunzione di ricostruire quell’epoca in maniera didascalica, ma, più semplicemente (ed efficacemente), parodiandone estetica e (chiamiamoli così) ideali. Ne vien fuori una commedia dai toni surreali che, però, non dimentica mai la tragedia che sta raccontando.

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Dietro la risata si cela uno spirito caustico utile proprio a ridicolizzare delle fantasie che molti, troppi, hanno scambiato per verità addirittura scientifiche

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Come “La vita è bella”, infatti, anche “Jojo Rabbit” ha un’anima giocosa, che qualcuno potrebbe incautamente definire inappropriata, però nessuno spettatore potrà sostenere che si è osato giocare con eventi drammatici. Dietro la risata, infatti, si cela uno spirito caustico utile proprio a ridicolizzare delle fantasie che molti, troppi, hanno scambiato per verità addirittura scientifiche. Il punto di riferimento di questo film, non è, però, il capolavoro di Benigni, quanto piuttosto Wes Anderson per l’estetica e un mix di Edgar Wright e Jim Jarmusch per la pungente ironia. L’unica perplessità che lascia questa pellicola sta proprio qui: nell’incapacità di Waititi di seguire una strada propria. Preferisce, piuttosto, scegliere dei punti di riferimento (giusti) e scopiazzarli (in modo, però, perfetto) fino a diventare, quasi, manierista.

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Il film riesce a narrare nel modo giusto una tematica complessa semplificandola, forse, ma riuscendo a colpire il bersaglio con meticolosa essenzialità

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Sottigliezze, comunque, roba da attenti analisti cinematografici. Nella sostanza, “Jojo Rabbit” rimane un film necessario e azzeccato sia per tematiche che per linguaggio. E’, infatti, fondamentale raccontare il nazismo e la shoah al pubblico più giovane, quello che, per anagrafe, non potrà (quasi) più giovare dei preziosi racconti dei sopravvissuti ai campi di concentramento. Il film, appunto, riesce a narrare nel modo giusto una tematica complessa semplificandola, forse, ma riuscendo a colpire il bersaglio con meticolosa essenzialità.

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“Jojo Rabbit” la recensione del film

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Una pellicola che, pur essendo ambientata in un’epoca lontana, parla un idioma, ahinoi, attualissimo. Il bullismo, la paura del diverso, il body shaming e le difficoltà d’integrazione sono argomenti davanti ai quali nessuno può permettersi di girare le spalle. Perché Hitler è morto, ma i suoi tanti fantasmi continuano ad affacciarsi alle nostre finestre, soprattutto quelle dei nostri ragazzi che, con troppa facilità, tendono ad aprirgli. “Jojo Rabbit”, invece, è un’opera punk che li invita a dargli un calcio per rigettarlo fuori e farlo tornare (per sempre) da dove è venuto.

Francesco G. Balzano

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“TOLO TOLO” LA RECENSIONE DEL FILM

“Tolo Tolo” la recensione del film

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“Tolo Tolo” la recensione del film

“Tolo Tolo” la recensione del film

Distribuzione: Medusa Film

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Regia: Checco Zalone
Cast: Checco Zalone, Souleymane Silla, Manda Touré, Nassor Said Birya, Alexis Michalik, Arianna Scommegna, Jean Marie Godet, Antonella Attili, Nunzio Cappiello, Gianni D’Addario, Eduardo Rejón, Nicola Nocella, Fabrizio Rocchi, Diletta Acquaviva, Maurizio Bousso, Sara Putignano, Barbara Bouchet, Nicola Di Bari, Francesco Cassano
Genere: Commedia
Durata: 90 minuti
Voto: ♥ (su 5)

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La trama

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Il film narra la tragicomica storia di Checco (Zalone), uomo che ama sognare in quel di Spinazzola, in Puglia. Dopo un fallimentare tentativo di trapiantare la cultura del sushi in terra carnivora, Checco fugge oberato dai debiti e tampinato da famiglia ed ex-mogli. Tutti incauti finanziatori dei suoi goffi sogni imprenditoriali. Si rifugia da cameriere in un resort africano, a confidarsi con l’amico e collega del posto, Oumar, che sogna l’Italia e adora il cinema neorealista italiano. Dentro di sé, Checco si sente più vicino ai tanti ricconi italiani che deve servire nell’hotel. Il suo equilibrio è decisamente precario, e si spezza quando la guerra civile spazza via tutto. E spinge Checco e Oumar prima nel villaggio di quest’ultimo, poi direttamente sulla rotta per l’Europa. Bus precari, deserto, passaggi fortunosi, momenti di pace, guerriglia, carceri e attraversamento del Mediterraneo. Checco non vuole saperne di tornare dove lo attendono al varco debiti e fallimenti, anzi: sogna di ritornare in Europa ma di trasferirsi nel Liechtenstein!

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Manca un’idea di cosa sia il Cinema e di come si debba costruire non specificatamente una commedia (come nel caso) ma un film in generale

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Per realizzare “Tolo Tolo”, Luca Medici, in arte (?) Checco Zalone, abbandona la sua storica collaborazione con Gennaro Nunziante per farsi coadiuvare, alla sceneggiatura, da Paolo Virzì. Un nome altisonante che, però, rimane soltanto scritto nei crediti, in quanto la mano del regista livornese rimane invisibile e impalpabile. Dietro la macchina da presa, per la prima volta, il comico si mette in proprio e, stavolta si, è del tutto evidente che la pellicola sia girata (si fa per dire) da un esordiente totale. Manca un’idea di cosa sia il Cinema e di come si debba costruire non specificatamente una commedia (come nel caso) ma un film in generale.

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“Tolo Tolo” la recensione del film

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L’insieme è un totale pastrocchio, un qualcosa di indefinito e senza né capo né coda. Non c’è una struttura a sorreggere le battute (quelle poche e poco divertenti che ci sono), né una vaga percezione di quale strada si voglia prendere. Circostanza grave se, ripetiamo, a metter mano alla sceneggiatura c’è anche un uomo navigato del cinema come Paolo Virzì. Invece, qui non c’è altro che una telecamera pronta a seguire il ciondolanta andare di un idiota (il personaggio di Checco Zalone), il quale vaga svagato nel bel mezzo di una tragedia senza mai farsi una domanda.

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L’intenzione è quella di guardare la realtà in superficie, prendendo uno slogan da destra e un altro da sinistra, e limitandosi a ripeterlo

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Non si abbia l’ardire di sostenere che “Tolo Tolo” (molto semplicemente, una storpiatura dell’italiano “solo solo”) sia un film che fa riflettere, perché non è affatto così. Anzi, l’intenzione è proprio l’esatto contrario, ovvero quella di guardare la realtà in superficie, prendendo uno slogan da destra e un altro da sinistra, e limitandosi a ripeterlo. Da che parte sta Checco Zalone? Alla domanda non c’è risposta, non in questo film (?) almeno, ma, francamente è il minore dei problemi. Si potrebbe dire che, addirittura, è una questione insignificante, perché qui il tema principale è che manca proprio la sostanza.

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Non si mette alla berlina niente e nessuno, è uno sguardo distratto su una tragedia

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Questa pellicola è il nulla, uno specchio il cui unico compito è riflettere. Non si mette alla berlina niente e nessuno, è uno sguardo distratto su una tragedia. Un contenitore vuoto che ognuno può riempire con le proprie idee sostenendo che vengano ridicolizzate quelle degl altri. Ma, in realtà, se uno prova davvero a immergersi dentro scoprirà che non c’è proprio profondità. Il punto più basso, poi, si raggiunge con l’insulso finale che la coppia Zalone/Virzì decide di dare alla loro orrenda creatura. Una canzoncina frivola ed inutile con la presuntuosa pretesa di far ridere, per giunta. Praticamente una summa di tutta l’operazione.

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“Tolo Tolo” la recensione del film

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Checco Zalone si conferma sceneggiatore mediocre e si scopre pessimo regista. Nessuna idea di cosa sia un film e da dove si cominci per realizzarlo, ma è bravissimo (e qui giù il capello) a vendere il suo brand. Non ha inventato nulla di eclatante, si tratta semplicemente di un personaggio banale, che ha fatto del banalismo la sua cifra stilistica. Non prende posizione, non è cerchiobottista, né ‘spara’ a 360 gradi. Fa una semplice operazione di marketing: strizza l’occhio ad ognuno di noi e ci invita a guardare il suo nulla. Quando uno scopre l’inganno (ammesso che lo scopra) è troppo tardi, perché stanno già scorrendo i titoli di coda. Ha giocato al gioco delle tre carte con gli spettatori, ma tra genio e furbizia c’è una bella differenza…

Francesco G. Balzano

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“HAMMAMET” LA RECENSIONE DEL FILM

“Hammamet” la recensione del film

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“Hammamet” la recensione del film

“Hammamet” la recensione del film

Distribuzione: 01 Distribution

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Regia: Gianni Amelio
Cast: Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Omero Antonutti, Renato Carpentieri, Giuseppe Cederna, Claudia Gerini
Genere: Biografico, Drammatico
Durata: 126 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Film incentrato sulla figura di Bettino Craxi, racconta un capitolo critico della storia d’Italia. A distanza di 20 anni dalla morte di uno degli uomini politici più importanti della Repubblica Italiana, Amelio riporta a galla il nome di Craxi. Un tempo sulle testate di tutti i giornali e oggi occultato silenziosamente sotto strati e strati di sabbia. Bertino Craxi, un nome che molti non vogliono ricordare, che intimorisce altri e che altri ancora vorrebbero cancellare, forse per sempre. Il film, basato su testimonianze reali, è un thriller fondato su tre tappe. Il re caduto: il primo socialista con l’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri, indagato poi nell’inchiesta Mani pulite. La figlia che lotta per lui: Stefania, istitutrice della Fondazione Craxi, volta a tutelare l’immagine del padre. Infine, l’ultimo capitolo, il terzo, dedicato a un misterioso giovane. Il quale entra nell’ambiente politico della famiglia Craxi, provando a demolirlo da dentro.

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“Hammamet” la recensione del film

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Gianni Amelio si confronta con uno dei personaggi più influenti della recente Storia d’Italia, ovvero Bettino Craxi. Lo fa senza dare giudizi, perché fu un uomo controverso sul quale, ancora oggi, è impossibile esporsi senza schierarsi politicamente, cosa che il regista, con saggezza, evita accuratemente. Così, lo spettatore rimarrà nel dubbio, se non ha già (dentro di sé) la risposta: ci troviamo davanti ad un delinquente o, al contrario, ad uno dei più grandi statisti degli ultimi cinquant’anni?

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Amelio inserisce un’ oggettiva, dunque non partitica, riflessione su quanto gli italiani abbiano la tendenza a distruggere idoli dopo averli innalzati

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Dunque, nessuna risposta a questo dilemma che, nel film, tale rimane. “Hamamet” non narra molto delle peripezie politiche di Craxi, perché preferisce raccontarne le ultime, umanissime, sofferenze. In questo contesto Amelio inserisce, poi, un’ oggettiva, dunque non partitica, riflessione su quanto gli italiani abbiano la tendenza a distruggere idoli dopo averli innalzati.

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L’intento di Amelio è quello di raccontare la caduta di un uomo che iniziava a sentirsi quasi un Dio

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Altra scelta saggia della sceneggiatura è quella di non dare nomi reali (e in certi casi non darne proprio) ai vari personaggi. Basti pensare che neppure Craxi viene mai citato direttamente, proprio per dare un senso di universalità alla vicenda narrata. E (forse forse) anche per inscenare un divertente gioco con gli spettatori, una sorta di malizioso ‘Indovina Chi?’. Alcuni, diciamolo, sono facilmente identificabili: più di tutti ‘Il Giudice’, che è senza dubbio Di Pietro. Ma è altrettanto ipotizzabile che Vincenzo sia, in realtà, Moroni e che dietro ‘l’Ospite’ si nasconda la figura di Fanfani. Quisquilie, comunque, perché l’essenza del film è altro: l’intento di Amelio, infatti, è quello di raccontare la caduta di un uomo che iniziava a sentirsi quasi un Dio, fino all’ultima caduta ai piedi di un albero al quale non riesce più nemmeno ad aggrapparsi. Una discesa colma di simboli e onirismo, perfettamente sottolineata dai gravi spartiti composti, magistralmente, dall’impeccabile Nicola Piovani.

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Favino ci restituisce il leader del PSI nella sua grandezza politica e nella fragilità umana, un uomo costantemente in bilico tra l’immagine pubblica (granitica) e quella privatissima, in cui piange e soffre senza nascondersi, anzi, a favor di telecamera

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Il lento declino di Craxi lo ritroviamo anche negli ambienti che lo circondano. Si parte da un’ enorme sala congressi, dove giganteggia su un palco rialzato, e finisce in un’ angusta, labirintica, ‘prigione’ all’aperto, ovvero i cunicoli della città nella quale è in esilio. “Hamamet” è soprattutto, se non addirittura soltanto, un film appoggiato sulle potenti spalle di un Favino in forma smagliante. Al di là dei preziosismi di cui abbiamo scritto, ma difficili da cogliere, il film è disegnato attorno al personaggio dell’attore romano, che è riuscito a cogliere ogni singolo aspetto di Craxi. I complimenti al compito svolto da trucco e parrucco sono d’obbligo, ma sarebbe stato vano senza il lavoro sulla voce, la mimica e pure la psicologia del protagonista. Favino ci restituisce il leader del PSI nella sua grandezza politica e nella fragilità umana, un uomo costantemente in bilico tra l’immagine pubblica (granitica) e quella privatissima, in cui piange e soffre senza nascondersi, anzi, a favor di telecamera.

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“Hammamet” la recensione del film

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“Hamamet” è, dunque, una pellicola che si fonda sull’interpretazione degli attori e non tutti loro, dispiace scriverlo, sono all’altezza del compito. Su Favino non c’è altro da aggiungere, mentre è d’obbligo un accenno alla bravura della giovane Livia Rossi, che interpreta con credibilità la figlia di Bettino, Stefania, nel film ribattezzata Anita in un chiaro accenno all’esilio scelto da o imposto al (fate voi) protagonista. Complimenti che, invece, non possono essere rivolti a Luca Filippi. Il suo Fausto è interpretato in maniera davvero infelice, privo di espressività e di giusta intonazione. Grandiosa, invece, ma non c’è quasi bisogno di sottolinearlo, la prova attoriale di Renato Carpentieri. Il suo ‘Ospite’ è l’unico davvero in grado di reggere la scena con lo strabordante Favino.

Francesco G. Balzano

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“PINOCCHIO” DI MATTEO GARRONE LA RECENSIONE DEL FILM

“Pinocchio” di Matteo Garrone la recensione del film

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“Pinocchio” di Matteo Garrone la recensione del film

“Pinocchio” di Matteo Garrone la recensione del film

Distribuzione: 01 Distribution

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Regia: Matteo Garrone
Cast: Roberto Benigni, Federico Ielapi, Marine Vacth, Gigi Proietti, Rocco Papaleo, Massimo Ceccherini, Alida Calabria, Alessio Di Domenicantonio, Maria Pia Timo, Davide Marotta, Paolo Graziosi, Gianfranco Gallo, Massimiliano Gallo, Marcello Fonte, Teco Celio, Enzo Vetrano, Nino Scardina
Durata: 120 minuti
Genere: Fantasy, Avventura
Voto: ♥♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Il film ripercorre la storia del burattino dal naso lungo, sin dalla sua nascita per mano di Geppetto che ne ha intagliato le fattezze. Un tronco di legno che diventa marionetta e che acquisisce capacità motorie e intellettive, come un qualsiasi bambino in carne e ossa. Questo è Pinocchio, anche se la sua carne è la corteccia e le sue ossa sono segatura. Nonostante il suo corpo sia duro come la quercia e la sua testa ancor di più, Geppetto si affeziona a lui. Come se fosse un bimbo vero, un suo figlio. Ma il burattino non è il bambino obbediente e studioso che il suo papà falegname sperava. Spinto da un’irrefrenabile curiosità, da un carattere birichino e talvolta ingenuo, Pinocchio si ritroverà spesso nei guai. Mettendo in pericolo anche lo stesso Geppetto…

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C’è da dire, che quando Matteo Garrone si confronta con un’opera letteraria, tende a diventare didascalico, forse eccessivamente.

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Per realizzare il suo “Pinocchio”, Matteo Garrone ha dovuto fare un passo indietro. Si è, cioè, ‘dimenticato’ di essere un autore, com’era reso evidente, invece, in “Dogman” per mettersi completamente al servizio del testo di Collodi. C’è da dire, che quando il regista si confronta con un’opera letteraria, tende a diventare didascalico, forse eccessivamente. Successe con “Gomorra”, accadde di nuovo con “Il racconto dei racconti” e ora si ripete con la favola del burattino di legno. Volendo vedere tale caratteristica con occhio critico, diremmo che questo è un suo limite. Se, invece, volessimo approcciarci alla questione con fare costruttivo, potremmo dire che è la sua forza.

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Garrone si comporta come un bravo artigiano del cinema. Lavora la materia utilizzando tutto il suo talento per poi farla sbocciare e brillare di luce propria.

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Perché se da un lato, mettendoci davvero poco di suo, Garrone abdica sin da principio al suo ruolo di autore, dall’altra è impossibile non notare che è stato l’unico a valorizzare la bellezza di un testo troppo spesso soggetto ad arbitrarie interpretazioni. Lui, invece, si comporta come un bravo artigiano del cinema. Lavora la materia utilizzando tutto il suo talento per poi farla sbocciare e brillare di luce propria. Non utilizza (quasi) per niente la tecnologia e si affida totalmente alle mani delle migliori maestranze attualmente in circolazione. Anche questo estremismo nel tornare all’antico, meglio all’essenziale, dice molto, se non tutto, su come egli intenda un certo genere di cinema.

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“Pinocchio” è una poesia in movimento, un piacere infinito per gli occhi e le orecchie

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Garrone punta forte sull’azzeccare i volti giusti, sul dirigerne maniacalmente l’interpretazione e sulla raffinatezza estetica di ogni fotogramma. Il cinema, diceva Fellini, è molto semplice: ci sono uno schermo e le sedie. Bisogna riempirli entrambi. Ecco, Garrone è riuscito perfettamente nell’impresa, soprattutto in quella di riempire lo schermo. “Pinocchio” è una poesia in movimento, un piacere infinito per gli occhi e le orecchie. In alcune scene, poi, si raggiunge addirittura la perfezione estetica, con ogni dettaglio messo al proprio posto per creare una perfetta armonia di immagini e suoni.

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“Pinocchio” di Matteo Garrone la recensione del film

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Il fatto di conoscere già perfettamente lo sviluppo narrativo della vicenda è un vantaggio per gli spettatori, perché gli consente di godersi pienamente tutto il resto. E quel “tutto il resto” sono le interpretazioni sublimi degli attori, tutti, dai principali fino all’ultimo dei comprimari. In particolare, però, una menzione specialissima la merita il piccolo protagonista, Federico Ielapi. Non è semplice, a 9 anni appena compiuti, tenere sulle spalle un film di Garrone, circondato da eccellenze interpretative come, solo per fare due nomi, Roberto Benigni e Gigi Proietti. Lui ci è riuscito alla grande perché non solo non sfigura, ma, anzi, spicca, si erge e brilla nonostante sia sovrastato da tanti ‘giganti’. Il suo Pinocchio è vitale, trascinante, vero, vivo, commovente.

Francesco G. Balzano

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“LA DEA FORTUNA” LA RECENSIONE DEL FILM

“Shazam” la recensione del film DC Comics

Vuoi leggere la recensione de “Shazam”, il film DC Comics?

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Regia: David F. Sandberg

Cast: Zachary Levi, Mark Strong, Asher Angel, Jack Dylan Grazer, Grace Fulton, Ian Chen, Jovan Armand, Faithe Herman, Cooper Andrews, Marta Milans.

Genere: Azione, Fantasy

Durata: 132 minuti

Voto: ♥♥♥

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Al quattordicenne Billy Batson, basta pronunciare una sola parola ‘SHAZAM!’ per trasformarsi in un adulto, il Supereroe Shazam, grazie a un anziano mago.
Essendo ancora un ragazzino nell’animo Shazam si diverte in questa versione adulta di sé stesso, facendo ciò che qualsiasi adolescente farebbe con dei superpoteri! Può volare? Ha una vista a raggi X? Può lanciare dei fulmini dalle mani? Può saltare i test delle lezioni di studi sociali?

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La DC sembra aver trovato la giusta via per la produzione dei suoi film, puntando su toni meno cupi e decisamente più scanzonati. Dopo il non riuscitissimo “Acquaman”, nonostante seguisse queste nuove ‘direttive, arriva “Shazam!”, gradevole pellicola d’azione adatta a tutta la famiglia. L’inizio è decisamente lento e con poco appeal, tanto da indurre lo spettatore a qualche sbadiglio di troppo. Ma, col passare dei minuti, il ritmo cresce a braccetto con la verve comica, a tutto beneficio della gradevolezza della storia.

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Piace, e non poco, la capacità di prendersi poco sul serio (dote rara nei film superomistici) e pure i continui rimandi agli anni 80, tanto cari a molte produzioni post “Stranger Things”. Bello anche il sottotesto dedicato al concetto di famiglia (assolutamente non tradizionale), che sarà gradito a coloro che, nel divertimento, non vogliono rinunciare a pillole di moralismo. Il clima generale, comunque, rimane quello di un film divertito e divertente, dove l’intento è quello di ‘sporcare’ l’immagine del supereroe perfettamente a suo agio con le sue capacità fuori dall’ordinario.

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Di fondo, il concetto è sempre: “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità (ricordate gli “Spiderman” di Sam Raimi?). Qui, però, l’incoscienza deriva dalla giovanissima età del protagonista, che, dunque, utilizza le sue ‘abilità’ con la goffagine del più inadatto tra gli inadatti. Ciò crea momenti di grande ilarità sia nel pubblico adolescente che in quello adulto, che non potrà non creare un parallelismo col “Ralph supermaxieroe” dei primi anni ’80.

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Questo clima giocoso e scanzonato viene, solo parzialmente, guastato da un finale stucchevolmente mieloso. In particolare, nella scena che si svolge attorno alla tavola imbandita per il Natale con la famiglia riunita al completo. Pure l’eccessiva durata pesa inutilmente sul ritmo del film, soprattutto, come già scritto, nei primissimi minuti. “Shazam!”, comunque, rimane una pellicola, tutto sommato, ben scritta e ben diretta da David F. Sandberg, autore che viene dall’horror, qui bravo a reinventarsi regista di un film da bollino verde. Bene tutto il cast, in particolare quello più giovane, con Asher Angel e, soprattutto, Jack Dylan Grazer (già visto nell’ultimo “It”) sugli scudi.

Francesco G. Balzano

“SHAZAM” LA SCHEDA DEL FILM

“Il viaggio di Yao” la recensione del film con Omar Sy

Vuoi leggere la recensione de “Il viaggio di Yao”, il film con Omar Sy?

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Regia: Philippe Godeau

Cast: Omar Sy, Lionel Louis Basse, Fatoumata Diawara, Germaine Acogny, Alibeta

Genere: Commedia

Durata: 103 minuti

Voto: ♥♥♥

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Yao vive nel nord del Senegal ed ha tredici anni. Vuole vuole incontrare a tutti i costi il suo idolo: Seydou Tall, un celebre attore francese invitato a Dakar per presentare il suo nuovo libro. Per realizzare il suo sogno Yao organizza la sua fuga a 387 km da casa. Toccato dal gesto del ragazzo, Seydou decide di riaccompagnarlo a casa attraversando il paese. Tra mille avventure per la strana coppia sarà un rocambolesco ritorno alle radici.

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Philippe Godeau, già produttore del film gioiello “L’ottavo giorno”, passa dietro la macchina da presa e dirige un road movie esistenzialista. La pellicola narra il percorso di crescita interiore di Seydou Tall, star coloured del cinema francese, troppo preso dal proprio lavoro per indagare su di sé. In questo viaggio sarà aiutato da Yao, ragazzo povero fuori ma ricco dentro, che gli insegnerà a ritrovare ciò che davvero è fondamentale nella vita.

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Il film mette a confronto due mentalità diametralmente opposte: quella europea e quella africana. Omar Sy è la perfetta via di mezzo, perché è un ‘bounty’, come lo definisce in una azzeccatissima battuta il suo giovane compagno di viaggio. Esattamente come il celebre snack, infatti, è nero fuori ma bianco dentro. Seydou ha scordato e tradito le sue origini, è vincolato visceralmente al tempo scandito dall’orologio. E’ strozzato da impegni accavallati uno sopra all’altro, che gli impediscono di riflettere sul senso di ciò che accade.

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A liberarlo dalla morsa arriva, salvifico, il giovane Yao. Curioso, determinato e (soprattutto) paziente, osserva l’adulto dimenarsi imprigionato da sé stesso. Come tutti gli attori, appare per ciò che non è, mente alla propria coscienza per autoconvincersi di aver intrapreso la giusta strada nella vita. Dovrà, invece, perdersi nel viaggio (e non solo metaforicamente) per ritrovare la via verso casa. Una casa interiore, che non è piccola come un lussuoso appartamento nel centro di Parigi, ma grande ed accogliente come un coloratissimo e vivace villaggio africano.

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“Il viaggio di Yao” è un film difficilmente catalogabile in un genere cinematografico. Sa essere commedia, ma anche dramma. Conquista non con i dialoghi e nemmeno per la regia, piuttosto di maniera, quindi sostanzialmente anonima. Riesce, però, nell’impresa di concedere allo spettatore un’ora e quaranta di riflessione, dilatando quel tempo “che porta con sé l’eternità”. Una visione del mondo in perfetto stile africano, dunque. Proprio la dilatazione esasperata del tempo, però, lo renderà poco appetibile al pubblico in cerca di ‘pop’.

Francesco G. Balzano

“DUMBO” LA RECENSIONE DEL FILM DI TIM BURTON

“Dumbo” la recensione del film di Tim Burton

Vuoi leggere la recensione di “Dumbo”, il film di Tim Burton?

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Regia: Tim Burton

Cast: Colin Farrell, Michael Keaton, Danny DeVito, Eva Green, Alan Arkin, Finley Hobbins, Nico Parker

Genere: Fantastico

Durata: 112 minuti

Voto: ♥♥ 1/2

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Holt Farrier è una ex star del circo che al ritorno dalla guerra trova la propria vita sconvolta. Il proprietario del circo Max Medici assume Holt, insieme ai figli Milly e Joe. E chiede loro di occuparsi di un elefantino appena nato le cui orecchie sproporzionate lo rendono lo zimbello di un circo già in difficoltà.

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Tim Burton incontra quello che doveva essere, almeno nelle attese, il personaggio tipico della sua filmografia. Ammettiamolo: quando abbiamo letto che il regista avrebbe diretto “Dumbo”, tutti abbiamo pensato: “Chi altro, se non lui?”. Lui, che ci aveva incantato con “Edward Mani di Forbice”. Lui, che aveva sublimato le figure dei cattivi (Joker ma, soprattutto, il Pinguino) nei suoi Batman.

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Insomma, quando Burton incontra il ‘Freak’ c’è un capolavoro dietro l’angolo. Invece, ahinoi, “Dumbo” sfugge alla regola. Già, perché il classico Disney del ’41, nelle sue mani, diventa anonimo, una storia come tante. Per carità, non è un brutto film, anzi. Intrattiene bene, si lascia guardare piacevolmente, nonostante la durata di quasi due ore. Però passa e si fa dimenticare con la stessa facilità. Il buon Tim, per dirla in breve, si limita a fare il compitino.

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Nel cast ci sono quasi tutti i suoi attori preferiti (manca, forse, il solo Johnny Depp) e pure fotografia e colonna sonora fanno intuire che non possiamo non trovarci al cospetto di un film di Burton. Però, ecco, la riconoscibilità è tutta nell’apparenza e poco nella sostanza. “Dumbo” ‘funziona’ quando l’elefantino si sublima nella sua iconicità di emarginato. Quando diventa ‘mostro’ davanti agli occhi degli strabici che lo giudicano solo per l’aspetto esteriore. Per il resto, poi, il film è prevedibile, si muove su binari classici e l’ultima stazione del carrozzone con a bordo Dumbo e gli altri non può che essere l’anonimato.

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Bene gli attori, tutti, anche se i personaggi non sono sempre azzeccati nella caratterizzazione. Torniamo a dire, però, che il problema di questo film non è la confezione (tutto sommato abbastanza gradevole), ma il contenuto. Se non considererete che l’opera è frutto del lavoro di un autore come Tim Burton, allora uscirete dalla sala soddifatti. In caso contrario, invece, sarà praticamente impossibile.

Francesco G. Balzano

“DUMBO” LA SCHEDA DEL FILM

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