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“A ciascuno il suo” film streaming (VIDEO)

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“A ciascuno il suo” film streaming (VIDEO)

da raiplay.it

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“A ciascuno il suo” film streaming è una storia ambientata nella Sicilia anni Sessanta. Un professore di liceo, poi, cerca la verità dietro a un duplice omicidio. Tratto, inoltre, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, selezione Premio Strega 1966. Vincitore, poi, di tre Nastri d’Argento nel 1968. Comunque, è una storia ambientata nella Sicilia anni Sessanta. Un professore di liceo, poi, cerca la verità dietro a un duplice omicidio. Tratto, inoltre, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, selezione Premio Strega 1966.

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Vincitore, poi, di tre Nastri d’Argento nel 1968. Tuttavia, è una storia ambientata nella Sicilia anni Sessanta. Un professore di liceo, poi, cerca la verità dietro a un duplice omicidio. Tratto, inoltre, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, selezione Premio Strega 1966. Vincitore, poi, di tre Nastri d’Argento nel 1968. Perciò, è una storia ambientata nella Sicilia anni Sessanta. Un professore di liceo, poi, cerca la verità dietro a un duplice omicidio. Tratto, inoltre, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia.

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“A ciascuno il suo” film streaming è una storia ambientata nella Sicilia anni Sessanta. Un professore di liceo, poi, cerca la verità dietro a un duplice omicidio. Tratto, inoltre, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, selezione Premio Strega 1966. Vincitore, poi, di tre Nastri d’Argento nel 1968. Comunque, è una storia ambientata nella Sicilia anni Sessanta. Un professore di liceo, poi, cerca la verità dietro a un duplice omicidio. Tratto, inoltre, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, selezione Premio Strega 1966.

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Vincitore, poi, di tre Nastri d’Argento nel 1968. Tuttavia, è una storia ambientata nella Sicilia anni Sessanta. Un professore di liceo, poi, cerca la verità dietro a un duplice omicidio. Tratto, inoltre, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, selezione Premio Strega 1966. Vincitore, poi, di tre Nastri d’Argento nel 1968. Perciò, è una storia ambientata nella Sicilia anni Sessanta. Un professore di liceo, poi, cerca la verità dietro a un duplice omicidio. Tratto, inoltre, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia.

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“Love and Monsters” la recensione del film

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“Love and Monsters” la recensione del film

“Love and Monsters” la recensione del film

Disponibile su Netflix

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Regia: Michael Matthews
Cast: Dylan O’Brien, Jessica Henwick, Dan Ewing, Ariana Greenblatt, Michael Rooker, Ellen Hollman, Melanie Zanetti, Damien Garvey, Bruce Spence
Genere: Avventura, commedia, azione, fantascienza
Durata: 109 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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“Love and Monsters” si rende conto fin da subito che cose banali come la fine del mondo sembrano molto attuali in questo momento storico. Quindi, introduce l’apocalisse con quell’atteggiamento un po’ indifferente di chi sa di non avere nulla di originale da offrire. Ciò pone le basi per un’avventura divertente – anche se a tratti deludente – piena di ammiccamenti consapevoli e una buona dose di passione. Ah, e ci sono alcuni giganteschi insetti mutanti.

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Joel (Dylan O’ Brien) vive sottoterra con un gruppo di altri sopravvissuti e insieme fanno del loro meglio per sopravvivere. Questo dopo che un incidente dovuto ad un asteroide distrugge il 95% della vita umana e trasforma il mondo in superficie in un inferno. Il protagonista ha recentemente stabilito un contatto radio con la sua ex fidanzata adolescente Aimee (Jessica Henwick), che vive in un altro bunker a 85 miglia di distanza. Per trovare la felicità e il suo posto nel nuovo mondo, Joel lascia i confini della sua casa e inizia un pericolo viaggio fuori dal club dei cuori solitari.

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L’impostazione è troppo schematica e anche un po’ stridente. Ma il regista Michael Matthews fa del suo meglio per bilanciare l’avventura, la fantascienza e la leggerezza. La sceneggiatura è carica di retorica e piena di rimandi fantascientifici post-apocalittici (da “Zombieland” a George Miller). Riferimenti importanti, che aiutano a donare leggerezza all’intera operazione, anche quando Joel fa saltare in aria dei lombrichi troppo cresciuti. O si impegna in un contatto visivo prolungato con un granchio gigante. A volte ci si sente inquieti, perché si vorrebbe capire (senza riuscirci) dove il film voglia andare davvero a parare, ma “Love and Monsters” ha il grande merito di non perdere mai il suo senso del divertimento.

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O’Brien è bravo, perché riesce a mostrare Joel come qualcosa di più di un atipico debole, romanticamente frustrato della ‘generazione Z’. Tira fuori dal suo personaggio una vulnerabilità che lo rende simpatico agli occhi del pubblico, evitando anche l’effetto macchietta. E’ il migliore nel cast, ed è per questo messo sempre in primo piano durante i momenti maggiormente emotivi del film. Ma la performance di O’Brien soffre per un gruppo di attori di contorno decisamente sottotono. La sua connessione con Aimee, in particolare, sembra più inevitabile che genuina. Tanto che una breve scena con Joel ed un robot si rivela molto più toccante di qualsiasi momento tra i due protagonisti umani.

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Il dettaglio e l’attenzione visiva in “Love and Monsters” merita un elogio speciale. La scenografia e la produzione si integrano perfettamente con le creature e il campo di battaglia devastato dal disastro, che costituisce quasi tutta l’ambientazione del film. Matthews ottiene questo con pochissimo budget, un’impresa senz’altro meritoria. E’ un esempio di qualità e ciò accade quando un film indipendente riceve il sostegno finanziario necessario per arrivare al grande pubblico, peraltro con merito.

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A livello di temi, purtroppo, il film sembra un po’ vuoto e ovvio. Non aiuta, in tal senso, l’eccessiva insistenza nel ricorrere a continue citazioni di film apocalittici precedenti. Però “Love and Monsters” è abbastanza divertente e consapevole da superare qualsiasi debolezza narrativa. I due protagonisti si distinguono entrambi all’interno del cast in un film che affronta la fine del mondo con un senso di divertimento e meraviglia. Una ventata d’aria fresca, in un momento in cui la sensazione di disastro è avvertita troppo da vicino da tutti.

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“GENITORI VS INFLUENCER LA RECENSIONE DEL FILM”

“Petra” prima stagione la recensione

“Petra” prima stagione la recensione

“Petra” prima stagione la recensione

disponibile su nowtv.it

Regia: Maria Sole Tognazzi
Cast: Paola Cortellesi, Andrea Pennacchi, Diego Ribon, Simone Liberati, Riccardo Lombardo, Antonio Zavattieri, Nicoletta Robello, Fabio Morici, Cristina Pasino
Genere: Miniserie Tv, Poliziesco
Numero episodi: 4
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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“Petra” prima stagione la recensione

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Petra Delicato (Paola Cortellesi) è una donna con due matrimoni alle spalle, entrambi falliti, dopo i quali ha deciso di essere stufa del romanticismo. I contatti interpersonali, in generale, non hanno mai avuto grande importanza per lei. Vuole soltanto stare alla larga dalle altre persone, ed è per questo che le piace il suo lavoro negli archivi della polizia. Almeno lì trova la sua pace. Tutto cambia quando, dopo un turno di notte, l’ex avvocato deve interrogare una giovane vittima di stupro. Questo insieme al molto più affidabile poliziotto Antonio Monte (Andrea Pennacchi), col quale si ritrova addirittura a seguire tutte le indagini. E non sarà l’unico caso che l’improbabile duo dovrà risolvere insieme.

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Anche se Alicia Giménez Bartlett ha pubblicato più di venti romanzi dal 1984 ad oggi, la scrittrice spagnola resta famosa per i suoi thriller polizieschi. Quelli con protagonista la poliziotta Petra Delicado, alle prese con casi molto difficili da risolvere. Dal 1996 si è occupata di moltissimi omicidi e il dodicesimo volume della serie, “Autobiografia di Petra Delicado”, è stato pubblicato soltanto lo scorso anno.

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Nel 1999, poi, è nata una serie tv basata sulle sue storie, composta da 13 episodi. Ma è stato molto tempo fa, ed è per questo che si è presa la decisione di provare a capitalizzare un po’ di più la popolarità acquisita con una seconda serie. Tuttavia, non si tratta di un sequel. Non solo il cast è cambiato del tutto, ma anche l’ambientazione si è spostata dalla Spagna all’Italia e il cognome, Delicado, è diventato Delicato.

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In “Petra”, poi, si ricomincia tutto da zero. Così, Petra non è già una poliziotta, ma scivola in questo compito per caso, a causa di una grave mancanza di personale. Questo, probabilmente, serve per giustificare il fatto che abbia idee alquanto singolari a proposito di legge e ordine. Nel primo episodio, ad esempio, riesce a scioccare Monte, ma anche il pubblico, quando umilia allegramente un sospettato durante l’interrogatorio, mostrando un’evidente inclinazione al sadismo.

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E durante tutta la serie fornisce abbastanza ragioni per far capire perché i suoi due matrimoni sono miseramente falliti. La diplomazia e la delicatezza non sono estattemente i suoi punti forti. Così come è chiaro che l’empatia non le interessa e la cooperazione significa semplicemente che gli altri fanno quello che lei ordina.

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In generale, la protagonista sembra un personaggio un po’ troppo artificioso e forzato. In fin dei conti, lo spunto migliore di questa serie lo offre proprio la purezza del rapporto tra Delicato e Monte. Un buon motivo per vedere la serie, senz’altro, ma rimane più di qualche perplessità sul personaggio che dà il titolo alla serie, troppo arrogante ed invadente per creare una vera empatia col pubblico. Non si può nemmeno dire che la sua scarsa attitudine alla socialità sia compensata dalla sua genialità, anzi. Sappiamo che, in passato, Petra è stata un avvocato di successo solo perché ci viene detto, non perché si evincano i motivi dalla serie.

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I casi, poi, oscillano tra il banale ed il bizzarro, Dopo l’episodio iniziale su uno stupratore , “Giorno da cani” si concentra, appunto, sul traffico di cani, in “Messaggeri dell’oscurità” le viene spedito un membro mozzato e, infine, in “Morti di carta” è alle prese con un enorme ricatto. Dunque, la gamma di temi affrontata è ampia e apprezzabile, così come il lavoro investigativo classico svolto dal duo di protagonisti. Mentre molte serie poliziesche in voga oggi hanno un po’ perso l’aspetto criminologico per concentrarsi su cose completamente diverse, “Petra” è senz’altro da consigliare agli appassionati del noir vecchio stile.

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Nonostante, però, i colpi di scena non manchino, a risultare deficiatria è l’attinenza con la realtà, cioè quella mancanza di verosimiglianza che rende impossibile il tentativo degli spettatori di risolvere il caso da soli. Nell’offerta di genere pesantemente sovraffollata, dunque, questa serie risulta un po’ carente di buoni motivi per farsi preferire alle altre, anche se rimane, comunque, un buon titolo.

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“SOUND OF METAL” LA RECENSIONE DEL FILM

“Raya e l’ultimo drago” la recensione del film

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“Raya e l’ultimo drago” la recensione del film

“Raya e l’ultimo drago” la recensione del film

disponibile su Disney+

Regia: Don Hall, Carlos López Estrada
Voci italiane: Veronica Puccio, Alessia Amendola, Jun Ichikawa, Valeriano Corini, Simone D’Andrea, Luisa Ranieri, Paolo Calabresi, Sara Labidi, Charlotte Infussi, Bruno Magne. Doriana Chierici, Vittoria Schisano, Laura Amadei, Simone Mori, Federico Talocci, Massimo Bitossi, Marina Valdemoro Maino, Camille Cabaltera
Genere: Animazione, azione, avventura, fantastico
Durata: 107 minuti
Voto: ♥♥ 1/2 (su 5)

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“Raya e l’ultimo drago” la recensione del film

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Un mondo distrutto dall’avidità per le risorse naturali? Beh, suona familiare. L’ultimo film della Disney, “Raya e l’ultimo drago”, mantiene la sua trama relativamente semplice. Si limita a creare un mondo che una volta era unito e che, da allora, è stato distrutto dalla brama di potere delle persone. Troppo semplice? Si, ma almeno “Raya e l’ultimo drago” non si impantana.

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Come accadde a “Mulan” e “Soul”, in concetti un po’ grandiosi ed elevati sulla singolarità dell’anima e l’energia condivisa dell’universo, nonché sull’utilitarismo del corpo. Questa pellicola sembra quasi un ritorno ai film avventurosi della vecchia Disney, a titoli come “Aladdin” e “Atlantis”. Soprattutto, sembra davvero destinato ai bambini, il che non dispiace affatto.

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Anche se il film è ambientato nella fantasiosa Kumandra, “Raya e l’ultimo drago” (di nuovo, come Aladdin) fa collassare un mucchio di identità nazionali e regionali in un’unica esplorazione del sud-est asiatico. Elementi di Laos, Thailandia, Cambogia, Vietnam, Myanmar, Malesia, Indonesia e Filippine sono incorporate qui. Dal design di un mercato del centro, ai sapori della zuppa che i personaggi assaporano insieme dopo una lunga giornata. Senza dimenticare i disegni dei draghi stessi, ovviamente. Questo tipo di ampia strategia di rappresentazione, che Disney utilizzò anche in “Coco” e “Oceania” può piacere o non piacere, naturalmente.

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Chi scrive non viene da quelle parti, né le conosce abbastanza bene da potersi avventurare in giudizi su accuratezze o imprecisioni. Ma, da un punto di vista puramente estetico, “Raya e l’ultimo drago” è spesso di una bellezza sbalorditiva. Tratteggia dettagli eccezionali anche in piccoli oggetti come un singolo fiore di loto. Oppure spettacolari descrizioni della tentacolare e gigantesca città fortezza costruita sull’acqua. Decisamente meno riuscito, invece, il design dei cattivi mostri di fumo.

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L’atmosfera vintage di “Raya e l’ultimo drago” è dovuta alle parti componenti che sono così familiari agli spettatori Disney. Abbiamo una sceneggiatura anacronistica. Una protagonista vivace e intelligente, accoppiata con due aiutanti fessacchiotti. Ovvero Tuk Tuk, il mezzo maiale e mezzo armadillo di Raya, e Sisu. E poi una narrazione che non offre realmente nessuna spiegazione alla malvagità dei cattivi. Ma immagino che la geopolitica non sia di particolare interesse per gli spettatori di “Raya e l’ultimo drago”. Che rimane saldamente nella modalità ‘Questo è un film per bambini e i bambini dovrebbero imparare a fidarsi e a fare amicizia’.

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Va bene così, dopotutto, dato che questo messaggio viene comunicato attraverso alcuni scene davvero emozionanti. La sorprendente colonna sonora elettronica di James Newton Howard, poi, aggiunge una deliziosa tensione. Quando il film si sposta sul terreno del genere action. La pellicola si affloscia un po’. Di tanto in tanto, nel corso del viaggio di Raya e Sisu, che diventa narrativamente troppo prevedibile. Rimane apprezzabile, comunque, il tentativo di tornare alla purezza delle origini senza voler, per forza, inserire elementi di stucchevole novità. Godibile.

Francesco G. Balzano

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“WANDAVISION” PRIMA STAGIONE LA RECENSIONE DISPONIBILE SU DISNEY PLUS

“Volevo nascondermi” la recensione del film

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“Volevo nascondermi” la recensione del film

“Volevo nascondermi” la recensione del film

Disponibile in streaming su Amazon Prime Video

Regia: Giorgio Diritti
Cast: Elio Germano, Pietro Traldi, Fabrizio Careddu, Andrea Gherpelli, Maurizio Pagliari, Mario Perrotta, Gianni Fantoni, Paola Lavini, Paolo Rossi, Giancarlo Ratti
Genere: Drammatico, biografico
Durata: 120 minuti
Voto: ♥♥♥♥ (su 5)

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Elio Germano offre una performance di rara bravura, tanto da immedesimarsi totalmente a fondo nel suo personaggio e rendere impossibile la distinzione tra interprete e interpretato.

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Giorgio Diritti dirige un film bello e scottante sulla vita dell’artista naif del 20° secolo Antonio Ligabue. Un uomo che soffrì di povertà e malattia mentale per tutta la vita. Ma i cui studi e sculture feroci, primitivi e appassionati di animali e ritratti umani lo resero celebrato ai suoi tempi come un autentico genio autodidatta. Nonché oggetto di culto dell’élite dell’epoca, che probabilmente lo considerava paragonabile, se non addirittura migliore di Van Gogh. Ci fu un altro biopic nel 1978, con la star di “Suspiria” Flavio Bucci come protagonista.

Stavolta, invece, tocca a Elio Germano interpretare il pittore Antonio Ligabue. E l’attore offre con una performance di rara bravura, tanto da immedesimarsi totalmente a fondo nel suo personaggio e rendere impossibile la distinzione tra interprete e interpretato. Allo spettatore viene restituita tutta la bruttezza estetica del protagonista. Non mancano lo scalpiccio, lo sguardo feroce, l’occasionale torsione equina della testa, i denti digrignati e il labbro inferiore cadente. Ma il film non dimentica di sottolineare che, per quanto Ligabue abbia vissuto un’esistenza quasi selvaggia, era anche un uomo che sapeva godersi le cose belle della vita. Come, ad esempio, una lauta mangiata al ristorante.

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“Volevo nascondermi” la recensione del film

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“Volevo nascondermi” racconta di come Ligabue sia nato in Italia, ma venne affidato a genitori adottivi svizzeri dopo la morte di sua madre. Fu bullizzato e tormentato da bambino, e persino confinato in un ospedale psichiatrico. Inoltre, fu espulso senza troppi fronzoli dalla Svizzera e si ritrovò a vivere nella povertà estrema, guadagnando lo stretto necessario come bracciante agricolo nel nord Italia. Solo un incontro casuale con il pittore Renato Marino Mazzacurati (Pietro Traldi) sbloccò il suo straordinario talento. Germano restituisce l’agonia interiore e la solitudine di un uomo che lottò con emozioni autolesioniste per tutta la sua vita. Un uomo che non conobbe l’amore della madre, baciato ‘soltanto’ da un miracoloso talento artistico. Talento che funzionò da valvola di sfogo per i suoi sentimenti e gli garantì guadagni necessari a vivere, ma non a diventare ricco.

Guardare “Volevo nascondermi” è come mangiare al ristorante in compagnia di Ligabue, tra portate deliziose eppure estremamente pesanti. Un film visivamente molto forte, che non cade nella trappola di voler assomigliare in qualche modo ai dipinti del protagonista. Anche se molte delle inquadrature ampie sono certamente (e giustamente) presentate come vasti e meravigliosi dipinti. 

Germano è completamente immedesimato nella parte, ed è molto bravo a trasmettere il genuino tormento dell’artista, la sua furia ribollente ed esigente nel volere che tutto sia all’altezza della sua visione. Una performance potentissima, che porta in dote a Germano l’Orso d’Argento del festival di Berlino come miglior attore.

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Francesco G. Balzano

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“Zack Snyder’s Justice League” la recensione del film

 

Disney Plus 5 insospettabili horror disponibili in streaming

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Disney Plus 5 insospettabili horror disponibili in streaming

Disney Plus 5 insospettabili horror disponibili in streaming

Luca Ceccotti per everyeye. it

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Dopo mesi d’anticipazioni, alla fine Star è approdato su Disney+, divenendo il sesto brand della piattaforma streaming. E quello con i contenuti finalmente maturi che gli abbonati stavano aspettando da un anno. Tutti prodotti – tra cinema e serie tv – dedicati a titoli Fox Studios, Searchlight e molto altro.

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Proprio grazie a Star, dunque, su Disney+ è arrivato un mondo di contenuti dedicati anche a un pubblico adulto e non solo per bambini o per tutta la famiglia. Il che significa anche l’approdo in streaming di diversi film horror. Di seguito vogliamo proporvi allora 5 film di genere da recuperare o rivedere comodamente sul divano, direttamente su Star.

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Ecco i titoli

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Il primo è il curioso “Jennifer’s Body” diretto da Karyn Kusama e scritto da Diabolo Cody, la sceneggiatrice del Juno di Jason Reitman. Protagonista del titolo è una Megan Fox mostro mangia uomini. Che nasconde la sua vera Io dietro a un perfetto corpo femminile che sfrutta per accalappiare le sue prede maschili. Il secondo è “Omen – Il Presagio” diretto da John Moore, remake dell’omonimo film horror del 1976 di Richard Donner.

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La storia è praticamente identica al classico di genere, ma i protagonisti sono Liev Schreiber e Julia Stiles. Arriviamo poi a “Fright Night” con il compianto Anton Yalchin e David Tennant. Anche questo remake firmato da Craig Gillespie (I, Tonya, Crudelia) del cult anni ’80 Ammazzavampiri. Molto divertente e con un ritmo sostenuto. Infine vi proponiamo il più conosciuto “La vera storia di Jack lo Squartatore” con Johnny Depp protagonista. E “La Piramide” del 2014 diretto da Gregory Levasseuer, horror con mummia, archeologia e ovviamente l’Egitto.

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CINEMA – “NOTIZIE DAL MONDO” SCHEDA RECENSIONE E TRAILER DEL FILM NETFLIX

“L’incredibile storia dell’isola delle rose” la recensione del film disponibile su Netflix

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“L’incredibile storia dell’isola delle rose” la recensione del film disponibile su Netflix

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Disponibile su Netflix

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Regia: Sydney Sibilia
Cast: Elio Germano, Matilda De Angelis, Leonardo Lidi, Fabrizio Bentivoglio, Luca Zingaretti, François Cluzet, Tom Wlaschiha
Genere: Commedia, drammatico, storico
Durata: 117 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Per quanto incredibile, come dice il titolo stesso, è la vera storia di Giorgio Rosa, un’ ingegnere meccanico bolognese, che creò un microstato indipendente al largo di Rimini. Le poche centinaia di metri quadrati della nazione chiamata ‘Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose’ erano quelle di una piattaforma artificiale. Progettata dallo stesso Giorgio Rosa.

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Il nostro giudizio

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Reduce dall’ottima trilogia di “Smetto quando voglio”, Sydney Sibilia coinvolge il solitamente serioso Elio Germanio nella sua nuova follia cinematografica. Nonostante un accento bolognese più grottesco che realistico, l’attore romano riesce comunque a calarsi piuttosto bene in un ruolo assai distante da quelli a cui ci ha abituato. Il regista, infatti, lo coinvolge in una storia squisitamente anarchica (badate bene, non sovranista), dove si vuole enfatizzare lo spirito creativo italiano e non la voglia, molto in voga qui da noi di questi tempi, di chiudersi al ‘diverso’.

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“L’incredibile storia dell’isola delle rose”, al contrario, è un film coloratissimo, come piace a Sibilia, che, insieme alla fida cosceneggiatrice Francesca Maniera, dipinge un’ode ad un personaggio lucidamente folle e fuori da ogni epoca. Un “Ritorno al futuro all’italiana” dove, però, c’è molto poco di inventato e, invece, moltissima cronaca, seppur, come da titolo, “incredibile”. Un film punk che mette alla berlina l’omologazione per dare, invece, libero sfogo all’anarchia più totale. Un violento schiaffo alle istituzioni italiane (di ieri come di oggi), perfettamente incarnate dai satiricissimi personaggi di Luca Zingaretti e Fabrizio Bentivoglio.

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Sibilia dimostra, per l’ennesima volta, di sguazzare felicemente nelle storie di attualità che hanno il sapore di un funghetto allucinogeno. Come in “Smetto quando voglio” è abilissimo nell’infilarsi negli anfratti più extra-ordinari della cronaca per restituirli in tutta la loro forza grottesca. Notevolissima la sua regia, sempre col giusto ritmo e in grado di mantenere desta l’attenzione dello spettatore. Convincente e trascinante anche la colonna sonora, gioioso mix di classici italiani anni ’60 e qualche perla esterofila. Coerente anche il finale, che fa suo il motto dei Clash: “Ho combattuto la legge e la legge ha vinto”. Tutto bello, insomma, ma la prossima volta il regista dovrà uscire fuori dalla comfort zone del neorealismo allucinato per evitare di fare fotocopie in serie della sua fortunata trilogia d’esordio.

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“SOUL” LA RECENSIONE DEL FILM DISPONIBILE SU DISNEY PLUS

“Soul” la recensione del film disponibile su Disney Plus

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“Soul” la recensione del film disponibile su Disney Plus

“Soul” la recensione del film disponibile su Disney Plus

Disponibile su Disney Plus

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Regia: Pete Docter
Voci italiane: Paola Cortellesi, Neri Marcorè, Perla Liberatori, Federica De Bortoli, Oliviero Dinelli, Ludovica Modugno, Rosella Izzo, Jonis Bascir, Fabrizio Vidale, Paola Egonu
Genere: Animazione, commedia, drammatico, avventura
Durata: 100 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Joe è un insegnante di musica in una scuola media, che desidera suonare nel famoso jazz club di New York The Blue Note. Joe perderà la vita mettendo involontariamente il piede sbagliato in una grata fognaria aperta. Ma la morte non rappresenterà la fine del suo viaggio. Quando l’anima di Joe lascerà il suo corpo, inizierà un nuovo sorprendente viaggio, che porterà la sua anima in un regno cosmico, il Seminario ‘You’. Dove vengono create e perfezionate le anime.

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Il nostro giudizio

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Tra tutti gli autori di casa Pixar, Pete Docter è quello a cui piace occuparsi di temi che hanno a che vedere con la metafisica e, perché no, anche con la filosofia. In “Soul” prova a fare il colpaccio, ovvero far digerire tematiche molto care al pubblico adulto pure alla platea dei bambini. Nonostante i lodevoli sforzi grafici e qualche trovata furbetta come, ad esempio, l’inserimento estemporaneo del personaggio del gatto, la missione non gli riesce completamente.

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Siamo, infatti, molto lontani dalla perfezione contenutistica di “Coco” e a due spanne di distanza dalla qualità dal suo “Inside Out” dove, invece, riuscì a far coincidere perfettamente psicologia e cinema per l’infanzia. “Soul”, invece, rimane un film dedicato soltanto ai più grandi, sia per il messaggio finale che per il linguaggio usato per raccontare il viaggio ultraterreno del protagonista. Un protagonista, tra l’altro, piuttosto deboluccio, perché non ha sufficiente e carisma per portare il pubblico ad empatizzare con lui e nemmeno una sufficiente carica di cattiveria per giustificarne la ‘redenzione’ finale.

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E’ convincente, invece, il parallelismo tra la musica jazz e il giusto modo di vivere la vita. La morale secondo cui è bene imparare ad affrontare l’esistenza senza spartito, come solo i grandi interpreti di questo genere musicale sanno fare, è affascinante e molto ben sublimato dal finale. Un finale che alza, anche se non di molto, la qualità di un film, tutto sommato, poco riuscito. Perché si perde in noiosissime congetture su un ‘oltremondo’ altrettanto barboso, quando poi la pellicola vuole esaltare la bellezza della vita terrena. Troppa filosofia, insomma, se lo scopo è quello di assaporare fino un fondo un gustoso trancio di pizza.

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“10 GIORNI CON BABBO NATALE” LA RECENSIONE DEL FILM SU AMAZON PRIME

Francesco G. Balzano

“10 giorni con Babbo Natale” la recensione del film su Amazon Prime

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“10 giorni con Babbo Natale” la recensione del film su Amazon Prime

“10 giorni con Babbo Natale” la recensione del film su Amazon Prime

Disponibile su Amazon Prime Video 

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Regia: Alessandro Genovesi
Cast: Fabio De Luigi, Valentina Lodovini, Diego Abatantuono, Angelica Elli, Matteo Castellucci, Bianca Usai
Genere: Commedia
Durata: 100 minuti
Voto: ♥♥♥ (su 5)

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La trama

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Dopo “10 giorni senza mamma” ritorna la famiglia Rovelli riunita per un’avventura natalizia, che li porterà lontano da casa. Ultimamente Carlo (Fabio De Luigi) e Giulia (Valentina Lodovini) si ritrovano spesso a discutere sulla divisione delle mansioni da svolgere a casa e in famiglia. Soprattutto perché lei ha ripreso di recente a lavorare ed è rimasto principalmente lui a occuparsi dei figli e delle faccende domestiche. A Carlo, però, questo ruolo di “mammo” tuttofare proprio non va giù e decide così di trovarsi anche lui un impiego. Purtroppo le sue speranze cadono miseramente, quando Giulia gli rivela che potrebbe ricevere una promozione, che la porterebbe a trasferirsi in Svezia. Il colloquio per questo posto si tiene a Stoccolma il 24 dicembre, impedendo alla famiglia di trascorrere insieme le festività natalizie.

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Il nostro giudizio

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In “10 giorni con Babbo Natale” Alessandro Genovesi affronta un tema molto spinoso e lo fa con enorme coraggio. Perché parlare di famiglia numerosa e lavoro, senza mai lasciarsi andare a facili estremismi, raccontando solo la realtà per ciò che è, non risulta mai impresa facile, anzi. E’ un dato di fatto che una coppia giovane, desiderosa di tirar su una famiglia tanto bella quanto numerosa debba fare delle rinunce. Si, ma chi è chiamato al maggior sacrificio? L’uomo o la donna? Capite bene, dunque, che addentrarsi in certe tematiche senza sposare nessun campanilismo è davvero impresa (quasi) impossibile.

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Solo per aver mantenuto il giusto equilibrio, insomma, Alessandro Genovesi dovrebbe ricevere molti complimenti. Anche perché, almeno in apparenza, con “10 giorni con Babbo Natale”, si mette in una posizione piuttosto scomoda. Se, infatti, in “10 giorni senza mamma” aveva, in maniera sacrosanta, redarguito quei tanti padri che, con la scusa del lavoro, si dimenticano di essere genitori, stavolta rivolge la medesima reprimenda anche alle madri. Perché Giulia è talmente presa dalla sua carriera da abbandonare totalmente la prole, lasciandola alle cure del marito Carlo. Persino durante le festività natalizie. Dove comincia, dunque, il labile confine tra realizzare sé stessi e dedicarsi ai progetti di famiglia?

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Attenzione: il film non vuole fare discorsi basati sul genere. Le mamme e i papà (i papà e le mamme) sono chiamati, in egual misura, agli stessi oneri e onori. Non è, dunque, un atto di accusa nei confronti delle donne in carriera, tutt’altro. Semmai un nuovo punto di vista, dal momento che il cinema di genere ‘natalizio’, da sempre, preferisce mettere alla berlina i papà distratti dal lavoro. Quasi come se solo gli uomini potessero arrogarsi il diritto di esibire tali ‘egoisimi’ e non anche le donne.

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“10 giorni con Babbo Natale” la recensione del film su Amazon Prime

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A questa attualissima tematica sociale “10 giorni con Babbo Natale” abbina un segmento al gusto di favola, con Diego Abatantuono nei panni di un Santa Claus a cui gli anni stanno giocando un brutto scherzo alla memoria. Un personaggio volutamente poco credibile, per far in modo che nessuno degli altri protagonisti riponga fede nella sua vera identità. La pellicola è sì commerciale e, come tutte le altre dello stesso filone, finisce col guardare i problemi solo in superficie senza scavare a fondo. Però è una pellicola che ha delle cose da dire e le dice, tutto sommato, con una buona dose di saggezza, riuscendo a mantenere il giusto equilibrio tra la crudezza dello schiaffo e la dolcezza della carezza.

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Alessandro Genovesi ritrae una famiglia piuttosto classica, per non dire stereotipata, ma, nonostante tutto (o forse proprio per questo) riesce a far affezionare lo spettatore ai personaggi. In questo nucleo stilizzato e non troppo definito, infatti, è più facile riconoscersi e compatire i piccoli e grandi dissidi rappresentati. Chi guarda si schiera, da una parte o dall’altra, chi dirige, invece, rimane al di sopra delle parti, limitandosi a raccontare col sorriso sempre a portata di mano. Questo è il grande merito del regista, aiutato, in maniera imprescindibile, dalle convincenti interpretazioni di Valentina Lodovini e Fabio De Luigi. Proprio quest’ultimo è il vero mattatore sulla scena, in grado di dare brio e ritmo all’opera sia quando è spalleggiato dall’attrice, sia quando divide la scena col cast di giovanissimi colleghi. Il meglio di sé, però, lo dà in coppia con Diego Abatantuono, quando mette in disparte il copione e si lascia andare ad una irrestitibile improvvisazione. Un film caustico, ma dal cuore tenerissimo.

Francesco G. Balzano

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“TUTTO NORMALE IL PROSSIMO NATALE” LA RECENSIONE DEL FILM SU NETFLIX

“Tutto normale il prossimo Natale” la recensione del film su Netflix

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“Tutto normale il prossimo Natale” la recensione del film su Netflix

“Tutto normale il prossimo Natale” la recensione del film su Netflix

Disponibile su Netflix

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Regia: Roberto Santucci
Cast: Leandro Hassum, Elisa Pinheiro, Danielle Winits, Louise Cardoso, Rodrigo Fagundes, Arianne Botelho, Miguel Rômulo, José Rubens, Levi Ferreira, Lola Fanucchi, Daniel Filho
Genere: Commedia
Durata: 101 minuti
Voto: ♥♥ 1/2 (su 5)

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La trama

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Jorge (Leandro Hassum) non ama il Natale in quanto è nato proprio il 25 dicembre ma anche per via della frenesia che in questo periodo coglie la quasi totalità delle persone. La notte della vigilia sale sul tetto di casa vestito da Babbo Natale per consegnare i regali ai propri figli ma subisce una caduta dagli effetti sconvolgenti. Resterà infatti vittima di un’amnesia lunga un anno, che si interromperà soltanto il successivo 24 dicembre. Entra così in un loop temporale che lo fa risvegliare a ogni vigilia di Natale. Senza essere a conoscenza di tutto ciò che ha combinato per il resto dell’anno. Come ad esempio gettare alle ortiche il rapporto con sua moglie Laura (Elisa Pinheiro). E mettersi con l’odiosa Màrcia (Danielle Winits), dopo essere cambiato notevolmente nel corso degli anni.

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Il nostro giudizio

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Roberto Santucci, regista brasiliano di commedie di gran successo in patria, sforna una pellicola tutta incentrata sul valore delle piccole cose. Quelle che acquistano il giusto (ed enorme) valore solo nel momento in cui, ahinoi, le perdiamo. Un argomento molto delicato e, senza dubbio commovente, che il cineasta tratta col giusto garbo e affidandosi ad un cast molto ben assortito e, a livello tecnico, anche di tutto rispetto. Tra i tanti attori presenti spiccano il protagonista, Leandro Hassum, e il quasi ‘invisibile’ ma fondamentale Levi Ferreira, nei panni del silenzioso Vô Nhanhão, personaggio solo apparentemente marginale.

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“Tutto normale il prossimo Natale” è un film ben congegnato, che può vantare una sceneggiatura armoniosa e con la giusta cadenza, almeno nella prima parte. Soffre, invece, quando, quasi inevitabilmente, deve passare dallo stile scanzonato a quello più serioso che, in un crescendo di emotività, porta al lacrimoso finale. Qui sta, in effetti, la più grande pecca di tutta l’operazione. Cioè nell’iniziare con una visione irrispettosa e spassosamente punk della ‘sacralità’ del Natale per finire, poi, con la melensità (anche eccessiva) tipica di questo periodo dell’anno. Come, per intenderci, se una puntata de “I Griffin” regalasse un finale benevolo nello stile de “I Robinson”.

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“Tutto normale il prossimo Natale” la recensione del film su Netflix

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Tutto questo, sia chiaro, non rovina affatto la gradevolezza della pellicola, che rimane una bella sorpresa del catalogo Netflix. Lascia, però, spiazzato (e non in senso positivo) lo spettatore questo deciso cambio di registro, che sembra voler forzare lo spettatore alla commozione. Si può, in sostanza, scrivere un film ‘politicamente scorretto’ sul Natale senza dover virare su toni più convenzionali al tema. Per quanto riguarda il cast, poi, dicevamo della convincente interpretazione del protagonista, Leandro Hassum, considerato ‘il Jim Carrey carioca’, per via della sua ‘faccia di gomma’.

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Una caratteristica assolutamente apprezzabile e molto utile nella parte comica e scorretta del film. Ma “Tutto normale il prossimo Natale” è anche un’opera dalle venature drammatiche, una tonalità del racconto che richiedeva di agire di sottrazione nella recitazione e non andare sopra le righe come, invece, fa lui. Soprattutto perché, intorno a lui, ci sono personaggi essenziali, quasi maschere senza profondità. La mancanza di moderazione è utile a strappare qualche risata in più, ma assolutamente fuori luogo nei momenti dolorosi. Facezie, comunque, forse un eccesso di acidità nella tastiera di chi digita, perché, è bene ripeterlo, stiamo parlando di un film gradevole e che merita di essere visto. Attenzione, però, per tematiche e toni non è assolutamente adatto ai bambini. Semmai è un buon modo per ammonire i grandi a non scordare mai di esserlo stati.

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“QUALCUNO SALVI IL NATALE 2” LA RECENSIONE DEL FILM SU NETFLIX

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