“Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità”, la recensione del film
Schnabel – che è anche pittore – non solo rifugge la maniera e il calligrafico rievocativo, consuetudine e vezzo del bio-pic “in costume”. La sua tecnica è anche sporca, sostiene il peso della camera a spalla, (ri-)utilizza semplici trucchi (un filtro, un vetro) per restituire una qualche alterazione percettiva e clinica della retina (maculopatia?). C’è poi il gusto autoriale, quello che demarca il perimetro del “metodo”, superandolo, e permette quindi l’accesso a una forma peculiare, a un linguaggio “eletto”, qui di pura ispirazione e di potente fremito. Ecco allora soggettive, piani ravvicinati (e ravvicinatissimi), con cui si rinnova quell’auspicio di simbiosi tra obiettivo e attore, che tanto piaceva al Kammerspiel: si rintracciano, con curiosità e – scontato da dire – sensibilità quasi pittorica, quelle minime linee d’ombra sui volti, che si trascinano dietro una potente capacità drammaturgica, complementare quasi al racconto stesso. Più di tutti, il viso scavato del magnetico Dafoe si presta a tale sublimazione espressiva, nell’irregolarità con cui la luce incanala, nei solchi di un una fisionomia ruvida e intensa, tracce opache di una sensibilità malinconica e “oscena” (come ai tempi la società usava stigmatizzare il “genio”) in un profilo sfaccettato e di fascino mesto e decadente.