Regia: Luca Guadagnino
Cast: Dakota Johnson, Tilda Swinton, Mia Goth, Lutz Ebersdorf, Jessica Harper, Chloë Grace Moretz, Angela Winkler, Sylvie Testud, Renee’ Soutendijk, Ingrid Caven, Malgorzata Bela
Genere: Horror
Durata: 152 minuti
Voto:
Guadagnino firma un horror personalissimo, crudo e violento, che affonda le radici nella memoria storica condivisa. La madre è quella persona che può sostituire tutti ma che nessuno può sostituire”. L’aforisma, ricamato e ingiallito, vige impietoso dietro il vetro di un quadretto, nell’ austero decoro di una casa di campagna. Il respiro ruvido di una donna agonizzante gratta e riempie un silenzio che suona già di lutto.
I sospiri – non solo quelli della Mater – sono il suono di un turbamento atavico, un formulario da recitare che sancisce il ricongiungimento con la morte o con l’ignoto (nella sua accezione più perturbante). Come in Argento, piove molto quando Susie Bannion arriva in accademia. Ed è brutto tempo per gran parte del film. In questa Berlino gelida, dalla poca fantasia cromatica (ottima ancora una volta la fotografia di Mukdeeprom), scissa dalla spoglia traiettoria del Muro, la reazione può solo che esplodere nella violenza, mentre dannati nella Colpa e vessati dal Castigo, Heimat (=patria, come madre) e Volk ( non a caso titolo di uno dei brani firmati da Yorke) non trovano redenzione.
È un horror di carne, dove l’indugio sui corpi restituisce l’incubo di una flagellazione costante, nonché quell’abietto abbinato alla femminilità di cui teorizzava la Kristeva: sudore, sangue, urina, saliva, vomito elargiscono un senso del mostruoso e dell’orrido che pare appartenere e condannare la donna. Come l’estrema unzione avviene con un olio “digitato” a mo’ di benedizione sulla fronte di una donna sfinita dalla malattia, i liquidi corporei hanno una potenza altrettanto sacra e simbolica, non solo perché coinvolti in rituali osceni, o perché bagnano crimini di efferati malefici, ma anche perché parlano di una Vergogna ancestrale, di un senso di repulsione che mortifica l’uomo e il suo corpo. La sabba – esasperazione dionisiaca e blasfema della danza – che si consuma nel sangue e nel suo delirio di forma (con qualche azzardo di troppo nello stile), ne è una coreografia pulsante e implacabile, come del resto i corpi trasfigurati in orrendi e informi ammassi di carne ribadiscono la miseria della materia anatomica.
Non può essere casuale allora la presenza di uno psicanalista (unico uomo attivo del racconto), sacerdote della mente e quindi dell’inconscio. Inconscio anche collettivo, gettato nella brace ancora tiepida della Storia più cruda e recente (il nazismo). Semmai si volesse portare avanti un raffronto tra l’opera di Argento e quella di Guadagnino (che guarda comunque ad altri maestri), l’aspetto primo da rivelare è la forte contestualizzazione che il secondo attribuisce al soggetto: la Berlino degli anni ’70 si presta a un ricollocamento preciso del crimine e della violenza che non è quello meramente d’effetto del Suspiria originale. È probabilmente ciò che rende questo rifacimento (definizione non del tutto accettabile) di una tensione ben più sottile, implacabile e sottocutanea, inglobando nel terrore vari livelli di lettura: a partire dal sovrannaturale, con le streghe (sodalizio di eccezionali interpreti), alle ferite cauterizzate nello stigma del Muro, quindi nella Memoria della Nazione.
Riccardo Balzano
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