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“Jojo Rabbit” la recensione del film
Distribuzione: Walt Disney Italia / 20th Century Fox
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Regia: Taika Waititi
Cast: Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie, Taika Waititi, Scarlett Johansson, Sam Rockwell, Archie Yates, Rebel Wilson, Alfie Allen, Stephen Merchant
Genere: Commedia, Drammatico
Durata: 108 minuti
Voto: ♥♥♥1/2 (su 5)
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E’ la storia di un dolce e timido bambino tedesco di dieci anni, Jojo Betzler, soprannominato “Rabbit”, appartenente alla Gioventù hitleriana durante i violenti anni della Seconda guerra mondiale. Siamo nella Germania del 1944, il padre di Jojo è al fronte in Italia, mentre sua madre, Rose, si prende cura di lui, dopo la morte della sorella. Il bambino trascorre le sue giornate in compagnia di Yorki, il suo unico vero amico, e frequentando un campo per giovani nazisti, gestito dal capitano Klenzendorf. Sebbene sia considerato strambo dai suoi coetanei, il ragazzo si sente un nazista avvantaggiato perché ha un amico immaginario molto particolare. Una versione grottesca e caricaturale di Adolf Hitler. Jojo odia gli ebrei, nonostante non ne abbia mai visto uno, è fermamente convinto che sia giusto ucciderli.
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Taika Waititi, regista di padre maori e madre ebrea, affronta col giusto coraggio una delle pagine più nere della Storia. Quel regime nazista che, ancora oggi, purtroppo ha putridi echi nella nostra società. Lo fa, però, senza avere la presunzione di ricostruire quell’epoca in maniera didascalica, ma, più semplicemente (ed efficacemente), parodiandone estetica e (chiamiamoli così) ideali. Ne vien fuori una commedia dai toni surreali che, però, non dimentica mai la tragedia che sta raccontando.
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Come “La vita è bella”, infatti, anche “Jojo Rabbit” ha un’anima giocosa, che qualcuno potrebbe incautamente definire inappropriata, però nessuno spettatore potrà sostenere che si è osato giocare con eventi drammatici. Dietro la risata, infatti, si cela uno spirito caustico utile proprio a ridicolizzare delle fantasie che molti, troppi, hanno scambiato per verità addirittura scientifiche. Il punto di riferimento di questo film, non è, però, il capolavoro di Benigni, quanto piuttosto Wes Anderson per l’estetica e un mix di Edgar Wright e Jim Jarmusch per la pungente ironia. L’unica perplessità che lascia questa pellicola sta proprio qui: nell’incapacità di Waititi di seguire una strada propria. Preferisce, piuttosto, scegliere dei punti di riferimento (giusti) e scopiazzarli (in modo, però, perfetto) fino a diventare, quasi, manierista.
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Sottigliezze, comunque, roba da attenti analisti cinematografici. Nella sostanza, “Jojo Rabbit” rimane un film necessario e azzeccato sia per tematiche che per linguaggio. E’, infatti, fondamentale raccontare il nazismo e la shoah al pubblico più giovane, quello che, per anagrafe, non potrà (quasi) più giovare dei preziosi racconti dei sopravvissuti ai campi di concentramento. Il film, appunto, riesce a narrare nel modo giusto una tematica complessa semplificandola, forse, ma riuscendo a colpire il bersaglio con meticolosa essenzialità.
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Una pellicola che, pur essendo ambientata in un’epoca lontana, parla un idioma, ahinoi, attualissimo. Il bullismo, la paura del diverso, il body shaming e le difficoltà d’integrazione sono argomenti davanti ai quali nessuno può permettersi di girare le spalle. Perché Hitler è morto, ma i suoi tanti fantasmi continuano ad affacciarsi alle nostre finestre, soprattutto quelle dei nostri ragazzi che, con troppa facilità, tendono ad aprirgli. “Jojo Rabbit”, invece, è un’opera punk che li invita a dargli un calcio per rigettarlo fuori e farlo tornare (per sempre) da dove è venuto.
Francesco G. Balzano
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