4 Agosto 2025

“Bring Her Back” la recensione del film

“Bring Her Back” la recensione del film

“Bring Her Back” la recensione del film

Regia: Danny e Michael Philippou

Cast: Billy Barratt, Sora Wong, Jonah Wren Phillips, Sally Hawkins

Paese: Australia

Anno: 2025

Durata: 104 minuti

Genere: Horror

Distribuzione: Eagle Pictures

Voto: ♥♥♥1/2 (su 5)

Ci sono film che mettono alla prova la razionalità dello spettatore fin dalle prime battute, che chiedono di mettere in pausa la credibilità e lasciarsi trascinare in un universo dove la logica non è la bussola principale. Bring Her Back, secondo lungometraggio dei fratelli Danny e Michael Philippou, è esattamente uno di questi. Ed è un film che, pur partendo da un presupposto decisamente forzato, riesce ad agganciare lo spettatore con artigli affilati. Portandolo in un vortice emotivo e visivo che, pur con le sue imperfezioni, ha il coraggio di non lasciare indifferenti.

A metà strada tra l’horror psicologico e il body horror più viscerale, la pellicola dei fratelli australiani ci racconta una storia di lutti non elaborati, desideri pericolosi, madri abiette e sensi di colpa che trovano nella carne il luogo della loro esplosione. Tutto inizia con una morte, come spesso accade nel cinema dell’orrore, ma questa volta non si tratta solo di un espediente narrativo: è il detonatore di un viaggio nella psiche umana e nelle sue derive più oscure.

Una famiglia spezzata, un legame che resiste – “Bring Her Back” la recensione

Il protagonista Andy (interpretato da Billy Barratt) è un ragazzo di diciassette anni che ha già dovuto affrontare il dolore della perdita della madre e che, all’inizio del film, si ritrova a fare i conti anche con la tragica morte del padre. A quel punto, il suo unico punto fermo è Piper, la sorellina ipovedente (una convincente Sora Wong), di cui si prende cura con dedizione quasi paterna. Il loro legame è la spina dorsale emotiva della storia, e la loro separazione appare subito come una minaccia devastante.

Ma lo Stato non ragiona con il cuore, e Andy, non ancora maggiorenne, non può ottenere l’affidamento della sorella. I due vengono così affidati temporaneamente a Laura (Sally Hawkins), un’ex assistente sociale che vive in una grande casa isolata e porta su di sé i segni profondi di un lutto devastante: la morte per annegamento della figlia Cathy, anch’ella non vedente. In casa con lei vive anche Oliver, un bambino traumatizzato, affetto da mutismo selettivo. che contribuisce a caricare l’atmosfera di mistero e disagio.

Fin da subito la dinamica familiare si mostra alterata: Laura manifesta un evidente attaccamento verso Piper, quasi morboso, mentre nei confronti di Andy si comporta con diffidenza, se non addirittura con aperta ostilità. La situazione si complica ulteriormente con l’introduzione di strani rituali, videocassette inquietanti, simboli arcani e comportamenti sempre più bizzarri da parte della donna. L’incubo si è solo appena affacciato.

Il pretesto narrativo: poco credibile ma necessario – “Bring Her Back” la recensione

È doveroso soffermarsi un momento sul punto più fragile di Bring Her Back: la premessa narrativa. L’intero meccanismo della storia si innesca su un passaggio che chiede molto allo spettatore in termini di sospensione della realtà. Che due minori vengano affidati a una donna così evidentemente disturbata, in una casa così isolata e priva di controllo, richiede uno sforzo di tolleranza non indifferente. Ma se si accetta questo patto iniziale, se si accoglie la richiesta dei registi di farsi trasportare, allora ci si trova immersi in un universo che è coerente con sé stesso e in grado di offrire suggestioni potenti.

E in fondo, quanti grandi film horror si fondano su premesse fragili o volutamente implausibili? Il punto non è la verosimiglianza, ma l’efficacia della messa in scena, e su questo versante i Philippou dimostrano ancora una volta di sapere il fatto loro.

Una regia sicura, che conferma un talento in crescita – “Bring Her Back” la recensione

La vera forza del film è infatti la regia. Dopo il folgorante esordio con Talk to Me, i fratelli Philippou si allontanano dalla formula del primo successo per esplorare nuove strade. Laddove Talk to Me era tutto concentrato sul gesto, sull’oggetto totemico, sulla messa in scena di una possessione legata al tocco, Bring Her Back si sviluppa invece attorno alla perdita e al desiderio ossessivo di colmare il vuoto con l’innaturale.

La regia è solida, dinamica, talvolta audace. Non teme la lentezza, ma sa anche quando accelerare. I Philippou padroneggiano il ritmo e lo modulano. Per creare un crescendo inquietante che porta lo spettatore verso una seconda parte decisamente più estrema. Le scene più viscerali non sono mai gratuite, ma frutto di un accumulo narrativo e psicologico che le rende inevitabili.

L’uso della videocassetta come oggetto narrativo – tramite le registrazioni dei rituali e dei precedenti esperimenti di Laura – dà al film un tocco vintage ben gestito, un’eco di passato che amplifica l’aura di mistero e follia. È un espediente già visto ma qui reinventato con gusto e funzione.

Body horror e simbolismo: la carne come linguaggio del dolore – “Bring Her Back” la recensione

La scelta di entrare nel territorio del body horror, più marcato rispetto al film precedente, è rischiosa ma stimolante. La mutilazione, l’autolesionismo, la trasformazione fisica sono veicoli di significato, non solo shock visivo. Il piccolo Oliver, in particolare, incarna questa deriva: la sua muticità, il suo corpo martoriato, la sua progressiva discesa in un comportamento disturbante sono la manifestazione fisica di un dolore che non trova parole.

Una delle sequenze più forti del film è quella in cui Oliver mastica un coltello come fosse un frutto: è una scena disturbante, girata con un’attenzione chirurgica alla reazione dello spettatore. Ma anche una potente metafora della distruzione interiore che si riversa nel corpo.

Il dolore, in Bring Her Back, non si elabora, si incarna. E questa è forse la tesi più interessante del film: che il lutto, se non affrontato, corrode, si fa carne, invade ogni spazio, fino a deformare le relazioni, la mente, il corpo stesso.

Sally Hawkins: madre amorevole o creatura demoniaca? – “Bring Her Back” la recensione

A dominare la scena, però, è senza dubbio Sally Hawkins. La sua Laura è un personaggio complesso, stratificato, ambiguo. Non è un mostro tout court, ma una donna devastata dalla perdita, incapace di accettare la realtà. Il suo amore per Piper, che si sovrappone al ricordo della figlia morta, è insieme tenero e spaventoso.

La Hawkins, con la sua consueta capacità di modulare le emozioni, passa con naturalezza dalla dolcezza materna al fanatismo più inquietante. È una figura tragica, più che malvagia. Una madre che ha perso tutto e cerca disperatamente di rimettere insieme i pezzi, scegliendo però la strada più pericolosa. La sua interpretazione è uno dei motivi per cui il film funziona anche nei suoi momenti più sopra le righe: le sue derive sono credibili perché radicate in un dolore autentico.

Piper e Andy: il cuore pulsante della storia – “Bring Her Back” la recensione

Il rapporto tra Andy e Piper è costruito con delicatezza. I due attori, Billy Barratt e Sora Wong, riescono a trasmettere una complicità autentica, fatta di piccoli gesti, silenzi, premure. Piper, con la sua cecità parziale, diventa una figura quasi profetica, un’eroina inconsapevole che incarna la purezza in un mondo corrotto.

La sua cecità la rende vulnerabile, ma mai debole. E nel finale, quando le tenebre esplodono in tutta la loro brutalità, è proprio lei a emergere come figura chiave, come testimone e vittima, ma anche come forza di resistenza. Non è la classica “final girl” da horror anni Ottanta, ma una protagonista costruita su altre basi, più umane e meno archetipiche.

Peccati di struttura e scelte narrative discutibili – “Bring Her Back” la recensione

Nonostante i molti pregi, Bring Her Back non è un film perfetto. L’eccessiva dilatazione di alcune sequenze, specie nella parte centrale, tende a spegnere il ritmo. Ci sono passaggi narrativi che sembrano reiterati, quasi compiaciuti della loro stessa lentezza. Inoltre, la scelta di non approfondire il background del rituale, di lasciare volutamente nel vago l’origine del male, è comprensibile sul piano simbolico. Ma lascia lo spettatore con un senso di incompiutezza.

Chi cerca una narrazione chiara, una mitologia coerente, potrebbe restare frustrato. Ma, riflettendo a posteriori, si intuisce che lo scopo dei Philippou non era costruire un mondo fantastico con regole interne, quanto piuttosto rappresentare una condizione emotiva, un incubo privato che si fa collettivo.

Un’opera seconda coraggiosa e disturbante – “Bring Her Back” la recensione

Bring Her Back è un film imperfetto ma necessario. È un horror che sa spaventare, ma anche toccare corde profonde. È un racconto di lutto e perdita mascherato da film di genere, è una riflessione sull’amore che diventa ossessione, sulla carne che si fa veicolo del dolore.

I fratelli Philippou confermano il loro talento e la loro voglia di osare, anche a costo di sbagliare qualcosa. Non si adagiano sugli allori di Talk to Me, ma esplorano nuove forme e contenuti, spingendo più in là il confine tra reale e surreale, tra paura e tragedia.

Per chi cerca nel cinema dell’orrore solo salti sulla sedia e mostri dietro la porta, Bring Her Back potrà risultare frustrante. Ma per chi è disposto a entrare in una dimensione più ambigua, dove l’incubo è lo specchio di un dolore troppo grande per essere contenuto, questo film offre un’esperienza intensa e disturbante.

Un’esperienza che, pur con tutti i suoi limiti, vale la pena affrontare.

Francesco G. Balzano

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